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Dopo l'attentato. Così a Londra tramonta il multiculturalismo

Giorgio Ferrari martedì 6 giugno 2017

Per scrivere le sue Lettere Inglesi Voltaire fuggì dalla Francia e dall’assolutismo della corte di Versailles riparando a Londra. Quei tre anni di esilio lo cambiarono, ma anche lui – per certi versi – cambiò gli inglesi. Patria della libertà di parola, le isole britanniche offrivano già allora il modello di una società capace di riconoscere e rispettare le identità linguistiche, religiose e culturali senza necessariamente volerle assimilare. A differenza della Francia, che ancora oggi persegue – con i medesimi sconfortanti risultati – una politica di assimilazione in nome della laicità dello Stato. Due modelli, due fallimenti, di fronte all’insorgere del radicalismo islamico.

Ma oggi, con quel reiterato «Enough is enough » (quando è troppo è troppo) il premier britannico Theresa May prova a seppellire quel che resta del multiculturalismo inglese. L’espressione non è nuova: l’adoperò anche George W.Bush all’indomani dell’attentato alle Twin Towers, ma se per la Casa Bianca ciò significava l’inizio di una rappresaglia contro al-Qaeda e Osama Benladen, per la May quell’'Enough' ha il suono di una rassegnata ammissione di sconfitta: quel sistema sociale e politico di valori che per alcuni decenni aveva orgogliosamente illuso la società britannica in realtà già da anni si andava sgretolando di fronte all’insorgere del radicalismo islamico.

Il primo a denunciarne il fallimento era stato David Cameron: «Francamente – ammonì nel 2011 – abbiamo bisogno di un po’ meno tolleranza passiva e un po’ più di attivo, muscolare liberalismo». Ma prima ancora delle parole della politica, il multiculturalismo era già finito sotto le ruote dei minivan e dei furgoni che seminano morte sui ponti di Londra, bruciato nei lampi mortali delle cariche esplosive dei jihadisti suicidi, sul filo delle lame dei lunghi coltelli che sgozzano i civili innocenti. Ma attenzione, questo è l’effetto, non la causa. Per scorgerla, dobbiamo svolgere il filo della storia all’indietro, ben prima che questa intifada europea avesse luogo, prima ancora che l’islamico della porta accanto potesse diventare da un giorno all’altro un carnefice.

L’attività di propaganda, indottrinamento e reclutamento di coloro che oggi chiamiamo con termine troppo sbrigativo 'radicalizzati' era cominciata molto prima. Palestinesi, sauditi, pachistani, islamici in genere del Commonwealth approdati nel Regno Unito in massiccia proporzione – un cittadino londinese su otto è musulmano – beneficiavano di cospicue elargizioni da parte della casa madre wahhabita, quel sacrario dell’ortodossia sunnita con sede a Riad e a Jeddah e lunghe propaggini presso gli emiri del Golfo. Moschee, madrasse, centri islamici, sedi del salafismo e della Fratellanza musulmana si spargevano a macchia d’olio nelle isole britanniche.

I servizi segreti, l’antiterrorismo, la polizia metropolitana avevano messo in guardia i governi: il pericolo di una saldatura fra gli elementi più radicali e il jihadismo era reale e molto probabile. Non vennero ascoltati. Per lo meno fino al 2005, l’anno del sanguinoso attentato al sistema dei trasporti londinese, costato 56 morti e 700 feriti. Ma era già tardi. Il problema, il pericolo, il cancro che divorava dall’interno il multiculturalismo di facciata era dato dal proliferare delle corti islamiche, un sistema giudiziario parallelo ed estraneo insieme alla Common Law, basato sulla sharia (l’applicazione coranica della legge), dove poligamia e mutilazioni genitali, talaq (ripudio della moglie), prevenzione dei matrimoni misti e accettazione delle violenze domestiche erano regola ammessa e accettata.

Accettata peraltro anche dalla Suprema Corte britannica, che riconobbe le Corti come 'tribunali arbitrali': idealmente, un glorioso passo avanti nell’edificazione di una perfetta società multiculturale, rispettosa delle differenze e delle tradizioni di ciascuna etnia e di qualsiasi credo religioso, di fatto un grimaldello che spalancava le porte a una giustizia parallela ed estranea allo Stato di diritto. Corti islamiche vennero inaugurate a Londra, Manchester, Glasgow, Leeds, Luton, Birmingham. Non senza l’applauso convinto dell’allora arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, del presidente della Corte suprema britannica Lord Phillips e del premier Gordon Brown, che si compiacque di avvallare la poligamia.

Multiculturalismo (o presunto tale) significava però anche che nel vasto 'Londonistan' – così si chiamano con accezione dispregiativa quei boroughs della capitale dove la presenza degli immigrati musulmani è altissima – la sharia diventasse legge dominante. Da Tower Hamlets a Ealing, da Brent a New Ham, a Berking abbondano le 'sharia controlled zone' dove il burka per le donne è d’obbligo e gli alcolici e la carne di maiale severamente proibiti. L’incompatibilità con lo stile di vita e i valori occidentali era ed è sempre stata evidente. Ciò che non riusciva o non si voleva capire era il fatto che all’interno dei 'Londonistan' del Regno Unito covavano una rabbia e una frustrazione nei confronti dell’Occidente che è stata facile territorio di conquista per gli strateghi del Califfato e – diciamolo – per i loro ricchi finanziatori seduti su un oceano di petrolio.

Ora, a due giorni dalle elezioni politiche da lei stessa indette per ottenere una più ampia maggioranza e meglio gestire l’uscita dall’Europa, Theresa May – la stessa che come ministro dell’Interno tagliò i fondi alla polizia metropolitana – proclama oggi che l’era della tolleranza nei confronti dell’estremismo è finita e così pure le cautele imposte dal rispetto della società multiculturale. Una sconfitta, certo. Etica, umana, sociale. Ma forse alternativa davvero non c’era.