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Coronavirus. Come per l'emergenza ebola, tutte le comunità devono unirsi

Lucia Capuzzi mercoledì 25 marzo 2020

«Le epidemie finiscono. In quanto tempo, però, dipende da noi. La strategia del “si salvi chi può” allunga la battaglia. Se lottiamo insieme, invece, abbiamo molte più possibilità di sconfiggere il virus. Fortunatamente, in genere, dopo un primo momento di smarrimento, le comunità lo intuiscono e mettono in campo una solidarietà spontanea». Non è una valutazione teorica o moralistica quella di Roberta Petrucci, pediatra di Medici senza frontiere (Msf), con una lunga esperienza di emergenze sanitarie in contesti ad alto rischio. Dalla Liberia al Congo, la dottoressa Petrucci ha imparato come la risposta della società sia determinante nella soluzione della crisi.

Dal quartier generale dell’organizzazione di Ginevra, il medico sta seguendo con attenzione l’evoluzione della pandemia. «È curioso come in scenari, culture, situazioni molto diverse, i meccanismi umani siano, comunque, simili. La prima reazione di fronte alla minaccia è l’oscillazione continua dalla negazione al panico. In questa fase, prevale l’istinto a proteggere antitutto sé stessi e la propria famiglia, anche a discapito degli altri. Le faccio un esempio: nei nostri ospedali, spesso, le mamme rubano il sapone per i figli. In Italia, alcuni hanno portato a casa il gel idroalcolica dai dispenser posti in centri pubblici. In qualche modo, c’è maggior tolleranza sociale di fronte a comportamenti normalmente considerati riprovevoli». Quanto più si protrae la fase dell’ognuno per sé, tanto più si fatica a trovare l’uscita dal labirinto. «Lo abbiamo visto in Congo. L’ultima epidemia di ebola è cominciata il primo agosto 2018, abbiamo dimesso l’ultimo paziente infettato alcuni giorni fa. Il contagio è andato avanti per diciotto mesi: tantissimo. Il fatto è che la malattia ha colpito il Kivu, una regione particolarmente complicata per la presenza di milizie armate e conflitti. Gli abitanti di un villaggio non si fidavano di quelli dell’altro o degli stessi vicini con cui, nel recente passato, c’erano stati scontri anche violenti».

La congiuntura opposta è avvenuta a Foya, una remota zona della Liberia. Nell’estate del 2014, dopo aver flagellato l’Africa occidentale, ebola si è insinuata nel villaggio, devastandolo. «I casi si sono moltiplicati nel giro di pochissime settimane. Eppure, la straordinaria solidarietà messa in atto dalla comunità ci ha consentito di mettere fine all’epidemia nel giro di tre mesi. Le persone si tutelavano l’un l’altra, ad esempio, fornendo cibo a quanti erano in isolamento affinché non uscissero. In Italia, ora, solidarietà può voler dire semplicemente stare a casa non solo per proteggersi ma per proteggere i più deboli».

La solidarietà quotidiana
La voce della dottoressa tradisce l’emozione mentre ricorda Yosiel (il nome è di fantasia), un anziano che aveva portato al centro di Msf l’ultimo componente della propria famiglia, la moglie. Ogni giorno, Yosiel si presentava in ospedale per domandare notizie. Con estrema gentilezza supplicava: «Per favore salvatela, è l’unico affetto che mi resta». Purtroppo, però, i camici bianchi non ce l’hanno fatta. «Non è stato facile dirglielo. Ricordo il suo volto sconvolto dal dolore. Eppure, anche allora, ci ha ringraziato». «So che avete fatto il possibile. Grazie per averla assistita e per avermi sempre tenuto al corrente», ha sussurrato Yosiel, prima di riprendere la via del ritorno verso la sua capanna ormai vuota. In un contesto dove non avere nessuno significa, spesso, non avere niente, l’anziano sarebbe diventato un “danno collaterale” di ebola. «Non è accaduto perché è stato adottato dai vicini. L’ho visto accadere molte volte a Foya. Altre persone della comunità si sono fatte carico dei sopravvissuti, se soli e fragili. Come gli orfani e gli anziani». Poi c’è il dramma dei piccoli malati.

Bimbi di pochi mesi, spesso
. Che richiederebbero assistenza continua. Il personale, però, non può farlo date le condizioni estreme. Ogni volta che medici e infermieri vanno dai pazienti in isolamento devono indossare indumenti protettivi. Così bardati, però, non possono restare a lungo. «Si pone, dunque, il problema di come occuparci dei bambini. Spesso, ci aiutano i guariti che, nel caso di ebola, sono immunizzati». Come Jon, sedici anni, “papà provvisorio” di Moises, sei mesi. «Era venuto con la mamma ma lei non ce l’ha fatta. Il piccolo, invece, reagiva bene ma aveva necessità di assistenza continua. Così quando è guarito, Jon ha deciso di restare nel reparto per prendersene cura. Alla fine, li abbiamo dimessi insieme...»