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Gran Bretagna. Corbyn paga tre anni di giravolte sulla Brexit

Paolo M. Alfieri venerdì 13 dicembre 2019

Il leader laburista Jeremy Corbyn (Ansa)

«Non credo che le mie politiche fossero invotabili, il problema è che ha dominato la Brexit». Già, che strano, dopo tre anni in cui l’uscita dall’Ue è stata il tema dominante della politica britannica. Chissà se l’avrà capito ora, Jeremy Corbyn. Ché nessuno ha ancora afferrato quale fosse la posizione ufficiale del leader laburista sulla questione chiave della campagna elettorale.

Le erratiche posizioni sulla Brexit, un programma economico di estrema sinistra, la nazionalizzazioni di ritorno, le mancate scuse sull’antisemitismo. Il disastro di Corbyn – autore del peggior risultato laburista dal 1935 – affonda le sue radici nella stessa storia personale di un leader che non ha saputo intercettare cambiamenti e desideri del suo elettorato storico, prima ancora che degli indecisi dell’ultima ora. Alla Camera dei Comuni, dove pure siede da quasi 37 anni, Corbyn era l’eterno “backbencher”, mai un incarico di governo, sempre nella retrovia dei battitori liberi, fra gli “indisciplinati” della sinistra laburista. Poi la svolta nel 2015, l’elezione a sorpresa a leader del partito, sull’onda del rifiuto dilagante nella base verso gli ex blairiani liberal in carriera.

Limitati i danni alle elezioni del 2017, con una grande rimonta sul finire della campagna elettorale, Corbyn ha sperato fino all’ultimo, se non di vincere, quanto meno di non perdere nemmeno stavolta. È andata male, malissimo, con il «muro rosso» del nord sbriciolato, roccaforti laburiste ed ex comunità di minatori passate ai conservatori, con perdite nette nei collegi in cui aveva prevalso di gran lunga il sì alla Brexit. «Le persone che avevano votato per l’uscita dall’Ue sono state trattate come stupide o razziste, o come gente che non capiva la questione», ha sintetizzato ieri la deputata laburista Lisa Nandy.

È soprattutto negli ex sobborghi industriali che Corbyn veniva percepito come un londinese della classe media poco in sintonia con i ceti più popolari. Nonostante il suo emblematico «no all’austerity», il leader laburista veniva paradossalmente visto come più distante dalla “working class” rispetto al sanguigno Boris Johnson. È un po’ il meccanismo che tre anni fa negli Usa ha premiato il miliardario (ma popolar-populista) Donald Trump nella «Rust Belt», l’ex cuore industriale d’America.

«Ho fatto tutto quello che potevo per vincere le elezioni, mi prendo le mie responsabilità», ha sibilato Corbyn, che già aveva annunciato una «pausa di riflessione» oltre a scandire: «Non guiderò il partito in nessun’altra campagna per le elezioni generali». Nessuno glielo chiederebbe mai. Spetterà all’esecutivo laburista scegliere il suo successore, e molti chiedono che il processo inizi già a gennaio. «Hai fallito. Per favore dimettiti», non le ha risparmiato la compagna di partito Margaret Hodged. Lui ha concesso che resterà in carica solo «fino a quando non sarà scelto il successore, il che avverrà a inizio anno».

Sulla sua ambiguità in tema di Brexit, Corbyn ha spiegato ieri di aver tentato di mediare tra chi aveva votato per il Remain nel referendum del 2016 e chi invece per il Leave. Non ha funzionato. Ed è questa la vera «character assassination» che Corbyn ha patito, una distruzione di credibilità che il leader laburista si è però auto-inferto, mentre ieri, ancora stordito dai risultati, lamentava i continui attacchi personali da parte degli avversari politici e della stampa nei suoi confronti. Nella politica delle posizioni nette, su un argomento poi così divisivo, a provare a stare nel mezzo (forse per paura di esporsi troppo in un senso o nell’altro) si finisce con il venire inesorabilmente stritolati.