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Clima. «Un milione di specie scomparirà». È corsa contro il tempo per la Cop15 in Cina

Lucia Capuzzi sabato 9 ottobre 2021

Un biologo marino ispeziona i coralli vicino alla costa Ayla Napa a Cipro

La 15esima Conferenza delle parti sulla biodiversità (Cop15) si svolgerà in due parti: la prima, virtuale, tra l’11 e il 15 ottobre; la seconda, in presenza a Kunming, tra il 25 aprile e l’8 maggio 2022. Vi parteciperanno i 196 Paesi che hanno firmato la Convenzione Onu sulla biodiversità, adottata nel vertice della terra di Rio del 1992 ed entrata in vigore l’anno successivo. Questi sono chiamati ad approvare una sorta di “road map” per il post-2020 in cui figurino obiettivi chiari e misurabili di medio e lungo termine per attenuare la distruzione degli ecosistemi naturali nonché finanziamenti per conseguirli. Una prima bozza del testo è stata pubblicata a luglio.

Uno, due, tre… I rintocchi della campana si susseguono lenti e cadenzati per 160 volte. Tante quante le specie estinte negli ultimi dieci anni nel mondo. «Cioè scomparse per sempre, molte prima ancora di essere conosciute, a causa dell’azione predatoria dell’essere umano», afferma il pastore anglicano di North Stoke, nel Somerset, che ha voluto, con questa iniziativa, scuotere i fedeli. La storia, raccontata nel corto di Nicolas Brown, Last of my kind e diffuso in anteprima dal Movimento Laudato si’, si propone di chiamare l’opinione pubblica all’impegno a tutela della biodiversità. Questione cruciale, affermano gli scienziati: un milione di tipologie animali e vegetali sono a rischio.​Mentre il clima ha fatto irruzione nel dibattito pubblico, però, il dibattito sulla sopravvivenza della pluralità biologica del pianeta resta confinato nei circoli specialisti. Lo dimostra la distrazione generale sulla Conferenza delle parti della Convenzione Onu sulla biodiversità o Cop15 che si apre lunedì in forma virtuale. Al termine di una prima settimana di colloqui, il summit proseguirà alla fine di aprile a Kunming, in Cina, in presenza. Dopo tre successivi rinvii a causa del Covid, i 196 governi firmatari della Convinzione sono, dunque, chiamati a negoziare nei prossimi mesi un nuovo piano per arginare lo stillicidio di specie ed ecosistemi a un decennio di distanza dal cosiddetto Protocollo di Aichi. Gli obiettivi previsti da quest’ultimo sono stati in gran parte disattesi.

Ora, i leader internazionali sono decisi non solo a riprovarci, bensì ad alzare il tiro. La “road map” per il post-2020, come è stata definita, pone mete ambiziose, almeno a giudicare dalla bozza finale, diffusa a luglio. Il traguardo finale è il conseguimento di un’armonica relazione con la natura entro il 2050. Per farlo, vengono proposti una sorta di obiettivi intermedi da raggiungere entro il 2030: il taglio dei due terzi dei pesticidi, l’eliminazione dell’inquinamento da plastica e la trasformazione del 30 per cento della superficie terrestre e marina in zone protette, cioè rispettivamente il doppio e il triplo dell’area attuale. Quest’ultima clausola – detta del “30x30” – è la più controversa. L’idea, in realtà, è “made in Usa”, Paese che, però, non ha firmato la Convenzione e, dunque, non parteciperà alla Cop15.

A lanciarla, appena iniziato il mandato, Joe Biden. La bozza della Conferenza l’ha riadattata in chiave globale, suscitando perplessità e critiche all’interno dello stesso fronte schierato in difesa dell’ambiente. Vari rappresentanti e associazioni indigene, sostenuti da organizzazioni internazionali, temono che la misura si traduca in un’applicazione del modello di “conservazione fortezza”, già adottato in molte parti di Africa e Asia. Questo si basa sull’espulsione della popolazioni locali dalle zone da proteggere per creare parchi naturali a beneficio dei turisti. Eppure, vari studi delle Agenzie Onu hanno dimostrato che le aree affidate alla gestione degli indigeni sono le meno deforestate. Per la Rights and resources initiative (Rri), inoltre, i costi per garantire i diritti dei nativi sulle terre, sono molto al di sotto della somma – tra i tre e gli undici dollari – richiesta per creare e mantenere un parco naturale. Alla spaccatura fra ecologisti, si somma quella fra gli “ambiziosi” – Unione Europea, Canada e Gran Bretagna, propensi a uno slancio forte a tutela della biodiversità – e gli Stati più “tiepidi”, in primis il Brasile, decisi a frenare.

Tra i nodi più spinosi quello del finanziamento per aiutare i Paesi, soprattutto del Sud del mondo, a proteggere la natura. Secondo gli esperti, sarebbero necessari mille miliardi l’anno, circa otto volte quanto speso nel 2019. I governi sperano in un massiccio contributo del settore privato per incrementare i fondi ma resta da capire quanto e come questo si lascerà coinvolgere. C’è, infine, la questione Cina, Paese ospite della Conferenza. Pechino ha tutto l’interesse a impiegare l’iniziativa per legittimare agli occhi del mondo la “svolta verde” avviata da Xi Jinping. Per questo, preme per l’adozione di una “Dichiarazione di Kunming”, una sorta di Accordo di Parigi sulla biodiversità. Nel libro bianco, diffuso questa settimana, ha fissato tra le priorità la salvaguardia immediata del 28,8 per cento del proprio territorio. La posizione cinese, però, resta ambigua. Per rilanciare l’economia, dopo la scossa della pandemia, il governo ha eliminato molti limiti alle emissioni, nelle province periferiche. E, ora, ha ordinato di aumentare la produzione di carbone per far calare i prezzi dell’energia.