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I nuovi estremismi. I reduci della Siria dietro il jihad asiatico

Camille Eid domenica 18 aprile 2021

L’attentato avvenuto nella Domenica del Palme contro la cattedrale di Makassar, capoluogo della provincia indonesiana del Sulawesi meridionale, ha riacceso i riflettori sul fenomeno jihadista in Asia. Che assume recentemente i connotati di un jihadismo “family style”, coinvolgendo anche donne e bambini dello stesso nucleo familiare. L’attentato in questione era stato condotto da due giovani coniugi, arrivati sul luogo in motocicletta prima di far esplodere una pentola a pressione imbottita di esplosivo. Il crollo militare del Daesh e la successiva morte del suo leader, Abu Bakr al-Baghdadi nell’ottobre 2019 hanno avuto una serie di conseguenze anche per il continente asiatico. La prima è strettamente connessa al rientro in patria dei jihadisti partiti per il Medio Oriente. La maggior parte degli oltre 1.200 combattenti originari del Sud-est asiatico andati in Iraq e Siria a partire dal luglio 2014 era costituita da indonesiani. L’esperienza bellica di questi ha incrementato l’influenza del Daesh in una vasta area fino ad allora dominata dai gruppi radicali affiliati ad al-Qaeda, come la Jemaah Islamiyyah. Se, infatti, questo gruppo è stato responsabile della maggior parte degli attentati avvenuti in Indonesia negli anni 2000-2009, l’ago della militanza jihadista si è spostato ora a favore dei gruppi affiliati o vicini al Daesh, come Jamaah Ansharut Daulah ( Jad) e Mujahidin Indonesia Timur (Mit), responsabili dei 13 attentati avvenuti dal 2016 a oggi nel Paese. Crescente preoccupazione anche in India, dove si moltiplicano le notizie di cellule smantellate dalle forze dell’ordine, dal Madhya Pradesh al Kerala e dal Karnataka a Hyderabad. Con la nascita, nel maggio 2019, di una “Wilaya dell’India”, il Daesh ha potuto inoltre inserirsi nel groviglio jihadista del Kashmir, da decenni al centro di una disputa territoriale tra India e Pakistan, come sta ultimamente cercando di strumentalizzare la questione dei profughi Rohingya, fuggiti dal Myanmar. L’unico dato positivo sembra riguardare la Malaysia, dove gli arresti di sospetti terroristi sono calati dai 72 del 2019 a soltanto 7 lo scorso anno. Secondo il capo dell’antiterrorismo locale, Normah Ishak, dietro quella «camuffata benedizione» che ha ridotto la minaccia operativa del sedicente Stato islamico nel Paese sta però solo la pandemia che ha paralizzato ogni attività dietro le quali si può mascherare ed agire.

PAKISTAN Secondo il South Asia Terrorism Portal, il Pakistan ha registrato 319 incidenti legati al terrorismo nel 2020 con relativi 169 morti civili. Ciò rappresenta un calo rispetto al picco di circa 4.000 attentati avvenuti nel 2013, con oltre 2.700 morti civili. Questo calo è in gran parte dovuto alle operazioni dell’esercito pachistano contro i taleban pachistani – noti anche come Tehrik-e-Taliban Pakistan ( Ttp) –, responsabili della maggior parte delle vittime civili e militari dal 2007, anno in cui il Ttp si era formata come coalizione di vari gruppi radicali. Sebbene questi dati rappresentino un miglioramento, il Ttp si è riorganizzato dall’estate scorsa. Diverse fazioni hanno giurato fedeltà al gruppo lo scorso luglio, e ci sono notizie di un ritorno in almeno sei distretti di Khyber Pakhtunkhwa «con intimidazioni della gente del posto, uccisioni mirate e attacchi alle forze di sicurezza». Si calcola che il Ttp abbia ucciso almeno 40 agenti della sicurezza tra marzo e settembre 2020.

SRI LANKA Il governo di Colombo ha proseguito il suo smantellamento del gruppo National Thawheed Jamaath (Ntj), responsabile degli attacchi della domenica di Pasqua del 21 aprile 2019 contro tre chiese e quattro alberghi di lusso del Paese, in cui 259 persone sono state uccise e altre 500 ferite. Undici arresti di membri dell’Ntj si sono aggiunti nel 2020 ai 294 arresti effettuati nel 2019. Pochi mesi fa, sono state formulate le accuse ufficiali di terrorismo e supporto materiale al Daesh contro tre imputati in relazione agli attentati di Pasqua. Si tratta di Mohamed Naufar, il «secondo emiro» del gruppo “Daesh in Sri Lanka”, che ha guidato gli sforzi di propaganda reclutando altre persone e organizzando “corsi di formazione” jihadista; Mohamed Anwar Mohamed Riskan, che ha fabbricato gli ordigni esplosivi improvvisati (i cosiddetti Ied) usati negli attacchi; e Ahamed Milhan Hayathu Mohamed, che ha ucciso un agente di polizia per ottenere così un’arma da fuoco da utilizzare nell’azione e ha esplorato uno dei luoghi prescelti per gli attacchi. Il gruppo terroristico era stato accusato dalle autorità locali, l’anno precedente, di aver danneggiato diverse statue buddiste nell’isola.



La maggior parte dei 1.200 combattenti, originari del Sud-est e approdati nell’area siriana e in Iraq dal luglio 2014, era costituita da indonesiani. Il loro ritorno segna ora il predominio delle formazioni ispirate al Daesh

BANGLADESH Il governo di Dacca ribadisce spesso che mai tollererà divisioni religiose. «Questo Paese, ha affermato il premier Sheikh Hasina lo scorso 15 dicembre, è di tutti e non permetteremo a nessuno di creare divisioni e anarchia in nome della religione ». Tuttavia, il 26 marzo scorso, centinaia di musulmani radicali hanno attaccato i templi indù nella città di Brahmanbaria in segno di protesta contro la visita nel Paese del primo ministro indiano Narendra Modi, giunto a Dacca per le celebrazioni del 50esimo anniversario dell’indipendenza del Bangladesh. Almeno dieci le persone rimaste uccise negli scontri con la polizia durante le manifestazioni organizzate da gruppi islamisti che accusano Modi di discriminare la minoranza musulmana dell’India. Le proteste sono proseguite nei giorni successivi, con migliaia di attivisti islamisti che hanno sfilato per le strade di Chittagong e Dacca dietro l’invito veicolato dal gruppo radicale conosciuto come Hefazat-e-Islam.

INDONESIA Tra i gruppi radicali emergenti nel Paese, la Jamaah Ansharut Daulah ( Jad), responsabile di una quindicina di attentati contro chiese e altri obiettivi. Il gruppo si prefigge la «missione » di estendere i confini del Daesh nel Sud-Est asiatico facendo soprattutto leva su affiliati e fiancheggiatori giovani, e quindi facilmente manipolabi-li, da votare ai suoi ideali jihadisti. Una situazione, questa, che preoccupa particolarmente il governo di Jakarta che cerca di mettere il gruppo alle corte ricorrendo all’eliminazione fisica di diversi suoi esponenti e a retate dell’antiterrorismo. Ma non va sottovalutata la pericolosità della Jemaah Islamiyyah, affiliata ad al-Qaeda, che ha visto l’arresto, nel 2019, del suo leader, Para Wijayanto, oltre a diverse retate avvenute negli ultimi mesi. Molti analisti d’intelligence sostengono che la Jemaah conti ormai su almeno 6.000 membri ben armati distribuiti in punti strategici tra Giava, Sumatra e Sulawesi, ma che dal 2010 si trovi “paralizzata” in una fase di «preparazione» delle azioni militari piuttosto che in una situazione di concreta realizzazione di operazioni attive sul territorio in cui è presente.

FILIPPINE Il Jad è responsabile di altri attentati nelle Filippine. È infatti provata la sua responsabilità del doppio attentato suicida – anch’esso condotto da una coppia di coniugi indonesiani – contro la Cattedrale di Nostra Signora del Monte Carmelo a Jolo, il 27 gennaio 2019, con venti morti e 102 feriti. L’attentato ha rappresentato il primo segnale della rinnovata influenza del Daesh nel Paese, dato il coinvolgimento di elementi locali nei preparativi dell’attacco. In precedenza, fu il gruppo Maute a rappresentare la filiale locale del Daesh, insieme alla fazione Basilan del gruppo Abu Sayyaf. Le due fazioni avevano dato prova della loro pericolosità nel corso della loro lunga occupazione della città di Marawi, nell’isola di Mindanao, impegnando l’esercito filippino in un assedio durato dal maggio 2017 all’ottobre del 2019. Si ritiene che i gruppi radicali filippini siano riusciti a sopravvivere alle operazioni dell’antiterrorismo grazie alle relazioni stabilite con i gruppi attivi nei Paesi vicini e a una struttura di comando decentralizzata.