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Paura senza fine. Centrafrica, tra uccisioni e rappresaglie Paese di nuovo in bilico

Matteo Fraschini Koffi sabato 17 dicembre 2016

Manifestazione per la pace in Centrafrica

Bangui - C'è qualcuno che parla inglese?». Un gruppo di caschi blu pachistani con le armi in pugno urla impaziente per le strade polverose della capitale centrafricana, Bangui. I negozianti li guardano sbigottiti parlando tra di loro in francese. «Bene, quindi lei è un giornalista, gli dica che torniamo con i soldi per pagare, tra dieci minuti». L’ostacolo della comunicazione è solo uno dei vari esempi in grado di dimostrare quanto sia ampio il distacco tra le forze di pace Onu e la popolazione. Soprattutto in questo periodo in cui si avverte un radicale aumento della tensione.

«La recente storia del Paese – afferma Adama Dieng, consigliere speciale delle Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi –, insegna che questo tipo di violenza mirata è particolarmente pericoloso e deve essere fermato». Il funzionario Onu si riferisce alle violenze che hanno colpito la cittadina di Bria, nel centro-est del territorio, dove qualche settimana fa sono morte almeno novanta persone secondo fonti concordanti. Un gruppo armato chiamato paradossalmente Unione per la pace in Centrafrica (Upc), composto principalmente dall’etnia dei fulani, è stato attaccato dal Fronte popolare per la rinascita del Centrafrica (Fprc).


Entrambi appartenevano all’ex coalizione ribelle, Seleka: le milizie islamiche che misero in atto il golpe del 23 marzo 2013. A ottobre c’è stato invece un massacro in un campo per sfollati nella località settentrionale di Kaga-Bandoro. Almeno 37 persone sono morte. In quel caso si trattava di una rappresaglia da parte di miliziani che volevano vendicare l’uccisione di quattro giovani musulmani.

La Missione Onu nel Paese (Minusca) – sempre più impotente e sempre più isolata dall’indifferenza della popolazione segnata anche da episodi di violenze attribuite ai Caschi blu – si è limitata a definire tale reazione «sproporzionata».
«Penso che questa rimanga una crisi dimenticata – afferma ad Avvenire Fabrizio Hochschild, a capo del coordinamento umanitario delle Nazioni Unite –.

Il Centrafrica è infatti oscurato dall’attenzione verso le altre crisi africane “meno invisibili”, come il Sud Sudan, o di maggiore interesse politico o economico, come la Repubblica democratica del Congo». Una guerra tra poveri, in un panorama internazionale catalizzato da altri scenari sui quali i riflettori dei media restano sempre puntati. Con la fine dell’operazione militare “Sangaris” avviata dalla Francia a fine 2013, duemila soldati francesi hanno lasciato lo scorso ottobre il Centrafrica (ne rimangono 350). Il rischio di nuovi combattimenti è quindi molto alto.

E sebbene a Bangui regni una strana calma, il resto del territorio è in mano ai gruppi armati e sotto una forte influenza del vicino Ciad. Si combatte per il controllo delle strade, la transumanza del bestiame, le ricche miniere d’oro e diamanti, e le aree settentrionali ad alto potenziale petrolifero. Il quadro attuale è infatti molto complesso.

«Prima gli scontri avvenivano soprattutto tra i miliziani cristiani anti-Balaka e i musulmani della Seleka – analizza un funzionario della Minusca –. Ora si combattono anche gruppi che un tempo operavano insieme». Il risultato: centinaia di morti recenti, 2,6 milioni di civili (oltre metà dei 4,5 milioni di abitanti) hanno urgente bisogno di aiuti, ancora 410mila sfollati interni e altri 420mila fuggiti negli Stati limitrofi. Il Centrafrica, inoltre, è stato marcato da una serie di abusi sessuali perpetrati sia dai soldati francesi e sia da quelli dell’Onu nei confronti di vittime minorenni.

«Pochi finanziamenti, mancanza di personale adeguato, regolari aggressioni contro lo staff e saccheggi dei nostri uffici – ammette il capo-missione di un’organizzazione umanitaria internazionale –, sono solo alcune delle sfide quotidiane». Il Paese, però, è sulla via della ricostruzione. Dalla creazione nel 2014 del Fondo fiduciario “Bekou”, promosso dall’Unione Europea per finanziare diversi progetti, alla visita del Papa dell’anno scorso, fino ai 2,2 miliardi di dollari ottenuti a novembre con la Conferenza di Bruxelles, il mondo politico e umanitario sul campo sta cercano di tenere viva l’attenzione sulla realtà centrafricana. E proprio la visita di papa Francesco (del 29 novembre 2015) ha avviato un processo di dialogo e di rifiuto della violenza, con un deciso decremento delle uccisioni e degli scontri come elemento chiave per portare poi il Paese al voto del marzo scorso.

«L’Italia vuole assumere un ruolo maggiore rispetto al passato – dice nel suo ufficio a Bangui Andrea Tani, a capo della Cooperazione italiana –. È un Paese da ricostruire completamente e bisognoso di tanti interventi per i quali è però necessaria una pace concreta».

Il presidente centrafricano, Faustine-Archange Touadera, ha infatti davanti a sé uno Stato devastato da decenni di isolamento, colpi di Stato, impunità diffuse, marginalizzazione, un livello assai basso di istruzione sia tra la popolazione che tra i funzionari governativi, e una moltitudine di gruppi ancora armati e fuori controllo. «Grazie ai progetti umanitari abbiamo avuto lavoro e la città è di nuovo in pace – conclude Assia Fadjil, una madre musulmana della cittadina sud-occidentale di Boda e beneficiaria degli aiuti dell’Organizzazione internazionale per la migrazione (Iom) –. Però i miei figli sono in Ciad e ancora non mi fido a farli ritornare qui».