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Intervista. Terrorismo, Caselli: fermezza, ma nelle regole

Antonio Maria Mira martedì 24 novembre 2015
«Fermezza sì ma nelle regole. Altrimenti faremmo il gioco dei terroristi ». Così Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e Torino, analizza l’attuale momento di tensione. E lo fa forte della lunga esperienza di contrasto al nostro terrorismo, quello degli “anni di piombo” e della “strategia della tensione”, quando «paradossalmente sia l’eversione di destra che di sinistra puntavano ad una reazione autoritaria, ma non siamo caduti nella trappola. Dobbiamo farlo anche ora». Anzi l’Italia potrebbe insegnare agli altri. «Abbiamo saputo – ben più che in altri Paesi – reagire all’offensiva terroristica senza cedere alla tentazione di sbrigative “scorciatoie”. Checché ne dicano vari intellettuali o sedicenti tali contro la legislazione antiterrorismo e contro i processi italiani». Questo ovviamente, aggiunge Caselli, «non comporta affatto sminuire il male. Il male resta male, quindi nessun buonismo, perdonismo, giustificazionismo. Sarebbe vanificare la giustizia. Il problema è provare – per quanto difficile sia, e ferma restando la necessità di innalzare argini robusti contro il fanatismo e la violenza – ad inventare forme di risposta che siano capaci di contenere il male, di fermarlo: senza tollerare o creare situazioni che invece lo incentivino senza fine. Ciò significa rinunziare alla legge del taglione, per provare a vincere il male in modo diverso». È possibile un paragone con quegli anni? Si tratta di mondi abissalmente e ontologicamente diversi. È tuttavia possibile trarre dall’esperienza passata una qualche indicazione. Siamo riusciti a non cadere nella trappola di tirare fuori, ammesso che davvero fosse nascosto da qualche parte, il volto spietatamente repressivo dello Stato. Ciò ci ha aiutati a risolvere meglio i problemi posti dal terrorismo. Perché la risposta a tali problemi dal punto di vista legislativo ha raschiato – lo ha detto più volte la Corte Costituzionale – il fondo del barile della corrispondenza ai principi e precetti costituzionali, ma non è mai andata oltre. Allora si parlava di leggi speciali. Ricordo che un leader sicuramente democratico come Ugo La Malfa chiese la reintroduzione della pena di morte. Invece abbiamo elaborato una legislazione “specialistica”, cioè mirata sulla realtà specifica dei fenomeni da affrontare, ma abbiamo respinto ogni “filosofia” che entrasse in rotta di collisione con i principi democratici. Specialistica ma non “speciale”. Non abbiamo creato, in particolare, tribunali speciali e procure speciali, a differenza di altri Paesi di democrazia occidentale. In Fran- cia lo hanno fatto e anche in Germania. Ma c’è ancora chi parla di repressione, per allora e anche per oggi. Lei stesso ne è stato vittima per le inchieste sui No Tav violenti... A fronte della tragedia del terrorismo e dello sforzo vincente delle forze sane del Paese, queste polemiche astiose rivelano tutta la loro inconsistenza. Piuttosto dobbiamo domandarci se sia possibile seguire una strada analoga anche per il nuovo terrorismo transnazionale, in un quadro di fermezza che si combini con il rispetto delle regole fondamentali, all’interno dei Paesi e sul piano internazionale. Ed è possibile? Dopo l’11 settembre, molti sforzi sono stati fatti, molte energie sono state messe in campo per difenderci dall’aggressione criminale del terrorismo. La stessa cosa sta accadendo ora. Ma non ci siamo soffermati abbastanza sul fatto che senza diritti non c’è giustizia, e senza giustizia non c’è pace. Dovremmo partire dalle parole pronunziate da Giovanni Paolo II inaugurando la III Conferenza episcopale latinoamericana di Puebla: «La pace interna ed internazionale sarà assicurata solo se vige un sistema economico e sociale fondato sulla giustizia….. ». Che un sistema politico si ispiri a logiche di sicurezza è necessario; ma se alla disperazione di chi vive nell’ingiustizia si contrappone soltanto uno schieramento armato finiamo per avvitarci dentro logiche contorte ed inefficaci. Facciamo come Penelope: gridiamo pace di giorno, ma prepariamo ingiustizia e violenze di notte. Un circolo vizioso che occorre rompere. Qualcuno dirà, belle parole irrealizzabili di fronte ai Kalashnikov o ai kamikaze... Sempre più spesso ci si chiede se sia davvero praticabile il dialogo con chi è costituzionalmente sordo perché il suo fanatismo gli impone un unico scopo, quello di sterminare gli “altri”. Ci si chiede anche se la fenditura tra musulmani non sia ormai diventata così profonda da rendere gli uni e gli altri irreversibilmente estranei e nemici. Quanto è difficile l’emersione dell’islam moderato? E come eliminare quei macigni che pesano sul quadro complessivo e lo schiacciano, come le enormi ambiguità di quanti finanziano il terrorismo, gli forniscono le armi e poi bombardano inserendosi in qualche “santa” alleanza? La sicurezza è certamente un bene fondamentale, è un tema decisivo, che però non può essere esclusivo. Altrimenti c’è il rischio che diritti e libertà diventino ostaggio della sicurezza, con conseguenze a catena sempre più vaste e peggiori.