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Reportage. Camerun, fuga dall'incubo Boko Haram

Matteo Fraschini Koffi, Zamai (Camerun) domenica 4 marzo 2018

Rifugiati a Minawao (foto Matteo Fraschini Koffi)

«Hanno attaccato anche questa mattina. Boko Haram ha colpito tre villaggi nella località di Ashigashiya provocando morti, feriti, e la fuga di molte persone arrivate fin qui a darci la notizia. I jihadisti continuano a seminare terrore, ma nessuno ne parla». Mohamed, camerunese sui 40 anni, è arrivato l’anno scorso nel campo per sfollati di Zamai, una località nella regione dell’Estremo Nord in Camerun.

Oltre a lui, circa altri mille civili, in gran parte donne e bambini, si trovano nelle stesse condizioni. Sono però almeno «241mila gli sfollati interni» nel nord del Paese, senza contare quelli che si sono spostati più a sud. Tutti hanno lasciato le loro case appena la setta nigeriana ha preso di mira centinaia di villaggi situati soprattutto alla frontiera tra Camerun e Nigeria.

«Guarda queste bambine», racconta Mohamed, indicando tre piccole sorelle che siedono una accanto all’altra abbracciate: «Sono venute qui alcuni giorni fa dopo aver perso entrambi i genitori. Come è successo a molti di noi – continua Mohamed –, Boko Haram li ha uccisi mentre tentavano di scappare». Secondo le Nazioni Unite, sono stati «almeno 60 gli attentati suicidi nella regione dell’Estremo Nord durante il 2017». Un aumento del 50 per cento rispetto al 2016. A qualche chilometro di distanza da Zamai, nel campo di rifugiati di Minawao, 60mila nigeriani hanno invece lasciato il loro Paese per trovare soccorso al di là della frontiera, in territorio camerunese.

Secondo le ultime stime, sono «oltre 93mila i profughi venuti in Camerun dalla Nigeria settentrionale». Con ogni nuovo attacco, però, i numeri continuano a crescere. «Il Camerun è lo Stato che ha subito le maggiori conseguenze legate all’espansione del gruppo jihadista oltre il confine della Nigeria», ha dichiarato Ursula Mueller, assistente del segretario generale dell’Onu per gli affari umanitari, dopo aver visitato a fine febbraio entrambi i campi. «Almeno 3,3 milioni di persone hanno urgente bisogno di assistenza. Nell’Estremo Nord – insiste Mueller –, una persona su tre è vittima di una crisi allarmante legata soprattutto alla sicurezza alimentare». Le organizzazioni umanitarie sul campo stanno però affrontando diversi ostacoli. È una lotta quotidiana che si estende anche verso l’area di Kolofata, dove i campi profughi sono in condizioni ancora più fragili. I problemi sono innanzitutto economici: «Dei 305 milioni di dollari richiesti per rispondere alla tragica situazione causata da Boko Haram in Camerun – recita chiaramente una nota dell’Organizzazione Onu per il coordinamento umanitario (Ocha) –, abbiamo raggiunto solo il cinque per cento». Proprio per questo si prevede che nel 2018 almeno «4,4 milioni di persone avranno bisogno di aiuto».

I profughi, non solo quelli registrati nei campi ma anche chi ha preferito cercare soccorso nelle località vicine, soffrono di malnutrizione e rischiano di morire per le epidemie provocate dalla mancanza di igiene. Inoltre, durante l’attuale stagione secca, l’acqua è sempre più scarsa, sia per le persone che per il bestiame. «Vicino ai pozzi la tensione è alta – racconta una giovane rifugiata che si reca ogni giorno a prendere l’acqua per la sua famiglia –: la situazione si sta aggravando anche perché ci sono sempre dei nuovi arrivati».

Prima di ripartire per il vicino Ciad, anch’esso teatro di una grave crisi umanitaria provocata dall’ondata jihadista, Mueller ha promesso lo stanziamento di altri 10 milioni di dollari al Camerun. Una somma che però appare «simbolica» rispetto alla realtà in cui si trova la regione settentrionale del Paese.

Nella città di Maroua, capoluogo dell’Estremo Nord, la gente vive una vita apparentemente regolare ma filtrata dalla paura. In questa città calda e polverosa, infatti, ci furono due attentati suicidi nel luglio del 2015 a distanza di qualche giorno, causati da tre ragazzine- kamikaze. Il bilancio fu di oltre 30 morti e decine di feriti. «In quei giorni la città si era svuotata di cittadini e riempita di militari – afferma un giovane tassista locale –. Ci sono voluti diversi mesi affinché i commercianti convincessero le autorità a eseguire meno controlli per evitare la morte economica della regione». I livelli di allerta restano però molto alti. I servizi di sicurezza locali e stranieri erano infatti riusciti ad arrestare un membro di Boko Haram che viveva, apparentemente senza destare sospetti, a Maroua. Faceva parte di una cellula del gruppo nigeriano che opera in tutta l’area. «Fino a qualche anno fa Maroua era una meta turistica importante per il Camerun», ammette un operatore umanitario che preferisce mantenere l’anonimato. «Ora, invece, sappiamo che esistono cellule dormienti dappertutto. Non ci sono quasi più stranieri in città – continua –, nessuno vuole rischiare di essere ucciso in un attentato o rapito dai jihadisti. Viviamo in apparenza una routine normale, sapendo però che tutto potrebbe cambiare improvvisamente».

Ci vogliono circa quattro ore di bus da Maroua per raggiungere Yagoua, una cittadina al confine con il Ciad. In questa zona è stato arrestato alcuni anni fa un camerunese accusato di operare con i jihadisti nigeriani con l’obiettivo di rapire delle suore brasiliane che vivevano nei villaggi attorno. «Rispetto a Maroua qui a Yagoua siamo più lontani dal confine con la Nigeria – racconta nel viaggio un passeggero della Danay Express, la principale compagnia di bus camerunese –. Però anche qui c’è tensione e l’esercito ha aumentato da alcuni anni il numero dei militari che controllano chi entra e chi esce». Persino tra le autorità c’è comunque poca fiducia: nel 2014, per esempio, era stato arrestato Alhadji Ibrahim, un poliziotto originario della cittadina settentrionale di Garoua e morto in prigione l’anno dopo. Tra i suoi complici c’era il figlio di un deputato del dipartimento di Mayo Sava, sempre nell’Estremo Nord.

Nonostante queste (a dir poco) precarie condizioni, le autorità camerunesi e le agenzie umanitarie stanno comunque discutendo sul modo per aiutare i profughi a tornare verso le loro case. Una sfida che, per ovvie ragioni, le vittime della violenza di Boko Haram non si sentono ancora di affrontare.