Mondo

Speculazioni. Cacao globale

Gianluca Schinaia martedì 24 febbraio 2009
Dolcezza, infanzia, ener­gia: cioccolato. Profitto, sfruttamento, sottosvi­luppo: cacao. Una semplificazio­ne brutale? O piuttosto due facce della stessa medaglia, due aspet­ti di un mondo poco conosciuto con il quale abbiamo a che fare, senza saperlo, ogni giorno? Il commercio e la trasformazione del cacao è all’origine dei dolciu­mi che acquistiamo nei super­mercati e nei bar, ma dietro la pa­tina magica ed evocativa delle e­tichette dei prodotti di cioccola­to si nascondono spesso storie di povertà e perfino di schiavitù. L’ultima vicenda che riguarda la guerra combattuta tra Paesi pro­duttori e multinazionali per il controllo del mercato è avvenu­ta in Venezuela. In ottobre, il pre­sidente Hugo Chávez ha pro­messo di nazionalizzare il cacao venezuelano (il 'Venezuelan black' è considerato il miglior cioccolato al mondo): «Non pos­siamo continuare a esportarlo – ha tuonato – dobbiamo indu­strializzarlo ». I veri profitti, infat­ti, arrivano dalla trasformazione della materia prima in cioccola­to, più che dalla vendita dei rac­colti. Attualmente, il settore è caratte­rizzato da forte concentrazione: sette Paesi rappresentano l’85% della produzione mondiale, cin­que imprese controllano l’80% del commercio, cinque società detengono il 70% della lavorazio­ne e sei multinazionali controlla­no l’80% del mercato del ciocco­lato. Tra queste ultime, tre sono americane, Hershey, Mars, Philip Morris (proprietaria della Kraft­Jacobs-Suchard-Côte d’Or) e tre sono europee: Nestlè (Svizzera), Cadbury-Schweppes (Uk) e Fer­rero (Italia). I fabbricanti di cioccolato – gli 'Willy Wonka' (il protagonista del noto film) delle nazioni più ric­che – sono l’anello solido di una catena che ha il punto più debo­le negli agricoltori dei Paesi po­veri. I grandi produttori spendo­no somme di denaro talmente e­levate nella pubblicità e nella fi­delizzazione del cliente che di fat­to dominano le catene di distri­buzione: quale supermercato può permettersi di fare a meno dei prodotti più famosi? Le speculazioni sul prezzo, che e­ra crollato negli anni 90 scate­nando danni sociali e sottosvi­luppo nei principali Stati produt­tori – tutti nel Terzo Mondo – han­no lasciato spazio ai ricchi mar­gini attuali, dato che nel 2008 il cacao è stato uno dei pochi beni a incrementare le proprie quota­zioni sulle Borse mondiali. Dagli anni 70 il Fondo monetario in­ternazionale, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio hanno spinto i Paesi produttori di cacao a privatizza­re le imprese pubbliche che ge­stivano il commercio e che spes­so garantivano gli interessi degli agricoltori e delle economie na­zionali. Le liberalizzazioni hanno aggravato la situazione dei colti­vatori, aumentando lo sfrutta­mento minorile e la marginaliz­zazione dei sindacati. Portando così le multinazionali a compra­re ciò che prima era statale e tu­telato da interessi pubblici. Oggi l’opera di molte ong e le ini­ziative O­ceano P­acifico 70 a tutela dei Paesi d’origine (come gli Ac­cordi sul cacao sosteni­bile) promuovono, con l’ausilio dei mass media, progetti tesi a limitare la forza di influenza delle grandi imprese (e in qualche caso le aziende hanno reso etiche e tra­sparenti le proprie operazioni). Mentre le innovazioni tecnologi­che sono in grado d’incentivare la nascita di industrie di trasfor­mazione negli Stati produttori. Infine, sta crescendo un nuova consapevolezza nelle nazioni in­dustrializzate: attraverso stru­menti di pressione democratica e la richiesta di soluzioni legislati­ve, gruppi di cittadini del mondo 'sviluppato' cercano di disin­centivare lo sfruttamento dei col­tivatori spesso condotto da alcu­ne multinazionali del cioccolato, fenomeno che pesa sulle econo­mie più deboli. Le prime popolazioni a coltivare la pianta furono i maya, seguiti dai toltechi e dagli aztechi. Nel 1528 Ferdinando Cortéz trasportò in Spagna i primi sacchi di cacao. Il cioccolato, cacao lavorato con l’aggiunta di zucchero o latte, cominciò a diffondersi in Europa nel Seicento (Reuters)