Mondo

Reportage. Brucia il Venezuela diviso

Marco Benedettelli, Caracas domenica 9 luglio 2017

Scontri fra manifestanti e polizia durante le proteste antigovernative a Caracas (Ansa)

Si allunga un’ombra sempre più spettrale su Caracas, la metropoli tropicale, baciata da una perenne primavera, è ormai assediata dai fantasmi della paura e della violenza. Basta poco per toccare con mano il collasso del sistema economico o imbattersi nella furia della guerriglia e della repressione. Basta entrare in un negozio, dove l’inflazione ha fatto schizzare i prezzi a cifre folli e i beni di prima necessità si fanno sempre più radi sui banconi, disposti dai commercianti in malinconici allineamenti molto allargati, per colmare la vacuità dello spazio rimasto sguarnito. Mentre crescono le fila davanti ai forni popolari, dove la gente cerca pane a prezzi calmierati. Oppure basta spingersi verso il quartiere Chacaito, occhio del ciclone della protesta. Ed incontrare i blocchi stradali, le sassaiole ed i fumogeni, e drappelli di protestanti che non smettono di scandire slogan come: «Non c’è più pane, non c’è più avena, ci sono solo i soldi per trafficare in cocaina».

Intanto giovanissimi di 15 anni o poco più partono allo scontro della polizia e della guardia nazionale, bardati di scudi e variopinte divise da guerriglieri urbani. Il 30 luglio, il governo ha indetto le votazioni per la nuova Assemblea Costituente, senza alcuna votazione popolare previa. L’attuale esecutivo trasformerà la Repubblica bolivariana di Venezuela in una dittatura», spiega nel mezzo di una manifestazione Emilio Graterón, membro del partito di opposizione Acción Democrática. Per questo, due settimane prima, il 16 luglio, l’opposizione ha organizzato una consultazione informale sulla legittimità della Costituente. Unico spiraglio nel “muro contro muro”, l’uscita dal carcere, ieri, dell’anti-chavista Leopoldo López. L’ex detenuto ha lasciato il carcere di Ramo Verde, dove era recluso dal 2014, ed è ora agli arresti domiciliari, ufficialmente, per «ragioni di salute».

Il coprifuoco a Caracas è imposto dalla violenza della criminalità. Che in questa stagione di miseria e profondo malessere detta ancor più legge. Dai poverissimi “barrios”, arroccati sulle colline in colate amorfe di mattoni rossi e lamiera, scendono indisturbati i “colectivos”, bande di motociclisti armati, composte da gang criminali alle quali già Hugo Chávez aveva concesso una sorta di legittimità, nella speranza di farne uno strumento di controllo nelle periferie dove la polizia venezuelana non può entrare. Oggi quelle bande si sono trasformate in agili squadre di repressione. Minacciano, aggrediscono gli oppositori nel cuore della città. «Più di una volta sono venuti sotto la redazione per spaventarci – racconta Mauro Bafile, direttore del giornale in lingua italiana Voce d’Italia, fondato nel 1950 per i connazionali che già erano immigrati durante la dittatura di Marcos Pérez Jiménez –. Siamo una delle voci critiche contro Maduro. Non abbiamo mai subito censura, ma ci arrivano intimidazioni anche via telefono».

La città è divisa in due grandi aree. Ad Ovest c’è la parte considerata “chavista”, coi palazzi del potere, in primis il Miraflores, sede della presidenza. Là c’è pure l’Asemblea Nacional, dove un gruppo di trenta militanti chavisti mercoledì ha fatto irruzione durante la cerimonia per l’indipendenza, ferendo sette deputati e decine di dipendenti. Nella zona Est invece c’è il cuore pulsante della opposizione. Qui vive la borghesia, e ogni giorno si consumano le violente proteste che stanno insanguinando il Paese. Gruppi di studenti, professionisti o impiegati allestiscono i blocchi del traffico, i cosiddetti “trancazos”. Sbattono con chiavi inglesi sui pali della luce in un perenne sottofondo di schiocchi metallici lungo avenida Francisco Solano López. L’utopia della rivoluzione bolivariana per loro ormai è solo un incubo a occhi aperti, decaduta a violenza, repressione, fame. Nei cortei – in corso dal 4 aprile – sono già morte almeno novanta persone, tra dimostranti e agenti. A due strade da Avenida Lopez c’è un centro commerciale dove, anche qui, i locali sono sempre più disabitati. Il cameriere dell’Hard Rock Cafe nel servire una birra piccola racconta: «Ho tre figli e una moglie che non lavora. Il mio è l’unico stipendio. Guadagno 160mila bolivar al mese». È il salario minimo fissato dal governo e aumentato tre volte negli ultimi mesi, in un inutile rincorsa all’inflazione. Il prezzo della birra è di 3.200 bolivar, quindi uno stipendio base vale 50 bottigliette di “cerveza”. Ma come è possibile sostenersi così? «La gente non mangia», spiega Antonio Nazzaro, scrittore e poeta italiano in Venezuela da 15 anni. Ma non è solo questione di alimentazione. La sanità è al collasso. Negli ospedali le apparecchiature cadono a pezzi. Mancano le medicine, si moltiplicano i casi di infezione, aumenta la mortalità fra anziani e bambini.

Eppure non tutto il Paese è contro Maduro. Si calcola che ci sia uno zoccolo duro, un 15 per cento, ancora fedelissimo all’attuale apparato. E più un 30 per cento crede ancora nelle idee della rivoluzione bolivariana ma rinnega la leadership dell’attuale presidente. Murales dedicati al Comandante e suo delfino Nicolás campeggiano in piena epica sudamericana sui muri delle periferie, dove il Psuv, il Partito socialista unito del Venezuela, ha portato finanziamenti per l’istruzione e altri progetti sociali.

Operazioni non supportate da un sistema strutturale solido, destinate a disgregarsi presto, ma che ai più poveri hanno dato almeno una speranza. «Non possiamo aspettarci nulla di buono da un’avanzata delle destre, che torneranno a dimenticarsi delle nostre baraccopoli», spiega Mirian Salcedo, ex deputata dell’Assemblea nazionale e oggi direttrice del centro formativo Hogar Sagrado Corazón, critica con molti aspetti del chavismo ma preoccupata per le sorti del suo quartiere-baraccopoli, La Guaira.