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Gran Bretagna. Scorte di cibo, la Brexit comincia a fare paura

Silvia Guzzetti venerdì 3 agosto 2018

È in crescita il fronte contrario all’uscita dall’Unione Europea (Ansa)

La Brexit del 29 marzo 2018 come quell’inverno terribile del 1963, «quando il nostro villaggio di 106 persone rimase bloccato dalla neve per sei settimane, senza cibo e senza elettricità, e mio padre riuscì a garantire 500 litri di latte ai più anziani che morivano di fame facendo funzionare la mungitrice, non so come, con il trattore». È il ricordo di Richard Young, proprietario di una fattoria nelle Cotswold. Direttore per le politiche del “Sustainable Food Trust”, organizzazione di contadini che si batte per un’agricoltura a base locale e sostenibile, ha cominciato ad accumulare qualche riserva di cibo in vista dell’uscita della Gran Bretagna. Anche perché manca meno di un anno. Nel timore che la scarsità di provviste rasenti quella sperimentata quando la neve gelò tutto 50 anni fa. Scorte di carne congelata, oppure di quella preservata con il sale che prepara sua sorella, e scatolame, marmellate e sughi.
Pensa che «potrebbe essere la mancanza di frutta e verdura l’aspetto più preoccupante della Brexit», visto che la Gran Bretagna importa quasi tutto, se facciamo eccezione per patate e mele, e il 30% arriva proprio dall’Unione Europea. Certo Richard ammette che «fare provviste di roba fresca è difficile» e riconosce che forse sta esagerando, ma la paranoia generata dall’incertezza del futuro, poiché non esiste ancora un accordo commerciale tra Unione e Regno Unito, ha catturato altri. Preoccupata all’idea di rimanere isolata dal resto d’Europa è l’insegnante in pensione Marilyn Bowles che, insieme al marito Allan, all’indomani del referendum del giugno 2016, con il quale il 52% degli elettori britannici ha deciso di uscire dall’Unione, ha cominciato a visitare ogni Paese europeo. «Sono sempre stata a favore dell’Europa e volevo assicurarmi di essere stata in tutti gli altri Stati prima che ce ne andassimo».
Le paure dei cittadini, per ora, rimangono tali, ma la necessità di un piano per affrontare la situazione ha fatto lavorare anche le istituzioni. È stato lo stesso neo-ministro per la Brexit Dominic Raab, lo scorso fine settimana, ad annunciare che il governo si darà da fare per garantire «scorte adeguate di cibo» al Paese nel caso un accordo non venga raggiunto con l’Unione Europea. E Ian Wright, della Food and Drink Federation, la «Federazione per il cibo e le bevande», che rappresenta le aziende più importanti di questo settore, ha detto di «aver suggerito al governo, mesi fa, che è necessario un piano di emergenza, ma non se ne è fatto nulla».
«È irresponsabile non prevedere un possibile esito negativo della Brexit», ha detto Wright, «perché basta, a volte, la mancanza di un elemento perché la vendita di una certa categoria di prodotti ne risenta». Né il settore alimentare è l’unico a correre ai ripari. Anche le aziende farmaceutiche Sanofi, Novartis e AstraZeneca hanno cominciato a mettere da parte scorte di medicine in vista di una Brexit “dura”. La Sanofi sta allungando i depositi di medicine di quattro settimane per garantire una finestra temporale di oltre tre mesi in modo che i pazienti non si ritrovino a corto di cure. A preoccuparsi è anche il ministro della Sanità Matt Hancock che, pur dicendosi sicuro che un accordo verrà raggiunto, ha ammesso di «aver avviato un piano di contingenza che prevede scorte di medicine, vaccini, strumenti medici e prodotti a base di sangue».
La Gran Bretagna, insomma, si prepara ad ogni evenienza, non esclusa quella di un secondo referendum nel quale si voti di nuovo. Lo chiede, con un’agguerrita campagna, il quotidiano “Independent” e, secondo un sondaggio di YouGov, il 42% degli elettori britannici sarebbero a favore a un secondo referendum sulla Brexit. Da tenersi alla fine dei negoziati sul divorzio da Bruxelles fra il governo di Theresa May e l’Ue.