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L'analisi. Bosnia, promesse mancate e silenzi

Fabio Carminati sabato 8 febbraio 2014
Gli ingredienti ci sono tutti: disoccupazione oltre il 44 per cento, venti persone su cento sotto il livello minimo di povertà e un equilibrio etnico-politico-religioso che si regge sui patti di Dayton che nel 1995 hanno fermato la guerra, “impastoiato” la politica, ma non hanno “seminato” per il futuro. Lasciando una situazione economica disastrata nel più debole e povero dei Paesi dell'ex Jugoslavia. Slovenia, Croazia e Serbia hanno riciclato in tempi relativamente brevi l'industria di Stato creando, soprattutto nel primi due Paesi, condizioni di crescita.  La Bosnia invece, come del resto il Kosovo e in parte la Macedonia, le aree più povere della Federazione disgregatasi nel conflitto balcanico, ha invece vissuto un dopoguerra prolungato. Che ora rischia di riaccendere uno scontro che il tempo ha solo sopito. Nei primi anni seguiti alla guerra devastante del 1992-'95, con un bilancio di centomila morti e due milioni di profughi, la Bosnia ottenne 5,1 miliardi di dollari di aiuti internazionali, destinati alla ricostruzione, mentre la produzione era affidata in prevalenza al settore privato. La privatizzazione delle industrie si è però tradotta in un vero e proprio saccheggio da parte di nuovi governanti nazionalisti, ed ha ridotto alla fame decine di migliaia di operai, creando, grazie alla corruzione dilagante, una classe di pochi nuovi ricchi. Ora molte imprese sono sull'orlo del fallimento e da mesi non pagano i lavoratori esasperati, che sono scesi in piazza nelle città. E fa anche specie, tra l'altro, il silenzio assordante delle diplomazie occidentali di fronte alla fiammata di proteste che ha provocato più di duecento feriti, decine di arresti e messo letteralmente a ferro e fuoco Sarajevo e altre 30 entità cittadine. Quello che sorprende gli analisti è infatti la blanda reazione della comunità internazionale impegnata in Bosnia: le ambasciate occidentali e l'Alto rappresentante Valentin Inzko si sono limitati a esprimere sostegno alla democrazia e alla libera espressione dello malcontento, ma condannando la violenza. Nulla di più. C'è anche qualcuno che si spinge oltre e parla di una “Primavera balcanica” che potrebbe innescare una drammatica concatenazione di eventi dalle conseguenze imprevedibili. L'attesa di uno sviluppo promesso e mai giunto è stata lunga. E la rabbia ha covato, alimentando mafie locali e formazioni politiche che fanno proprio dello scontento il terreno fertile da coltivare. Per questo in molti ora si chiedono fino a che punto le promesse non mantenute dall'Occidente, impegnato in scenari successivi e diversi da quello bosniaco, non possano aver creato una situazione incontrollabile? I fuochi del palazzo della presidenza di Sarajevo stanno lì a dimostrare che l'incendio può propagarsi.