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L'ODISSEA DEI PROFUGHI. «Con me sul barcone morti di fame in 61»

Paolo Lambruschi sabato 31 marzo 2012
Dodici mesi fa l’uomo seduto davanti a me era moribondo su un gommone alla deriva nelle acque del Canale di Sicilia. Attorno a lui l’orrore. Le sue compagne e i compagni di viaggio, tra cui due bambini di un anno di età, si spegnevano a uno a uno per fame e sete. Alla fine morirono in 63. Eppure poteva finire diversamente: un elicottero militare della Nato aveva avvicinato i naufraghi in tempo per avvisare le navi che pattugliavano l’area, ma si limitò a fotografarli e a lanciare loro acqua minerale e biscotti promettendo un aiuto mai arrivato. Oggi Daniel, 29 anni, eritreo, miracolosamente sopravvissuto senza cibo né acqua per due settimane in mare, è un rifugiato e vive in Italia, alle porte di Milano. E chiede giustizia. La sua testimonianza, che ripete anche a noi, è stata raccolta dal Consiglio d’Europa, il quale l’altro ieri ha accusato Italia, Francia, Spagna, Cipro per omissione di soccorso in mare. Se le accuse fossero confermate, sarebbe un’onta per la coscienza del Vecchio continente. Daniel è arrivato a Tripoli nel 2006, in fuga dal suo stato-caserma. Tra frequenti incarcerazioni per immigrazione illegale, ha lavorato come meccanico guadagnando abbastanza. Ma, allo scoppio della guerra civile, insorti e lealisti praticano egualmente la caccia al subsahariano, quindi decide di fuggire. «Una notte di un anno fa – esordisce – mi hanno detto che partiva una nave. I trafficanti, al servizio del regime, gestivano le partenze. Ci hanno stipati in 72 su un gommone e puntando il timone su Lampedusa. Ci hanno fatto partire senza cibo né acqua perché secondo loro in 18 ore saremmo arrivati».Sono le «bombe umane», risposta ai bombardamenti Nato. Quindi a bordo non ci sono marinai. Daniel ricorda il mare calmo alla partenza, ma in poche ore le onde si ingrossano spedendo il gommone sovraccarico fuori rotta.«Sedici ore dopo la partenza – aggiunge – ci siamo accorti che il carburante era finito. Allora con il satellitare abbiamo chiamato don Mosè Zerai (il sacerdote cattolico eritreo che vive in Italia, ndr) pregandolo di dare l’allarme alla Guardia costiera italiana. Così lui ha fatto, ma la carica del telefono si è esaurita e abbiamo perso i contatti».Qualche ora dopo si è avvicinato un elicottero.  «Ha girato tre volte sopra il gommone. Grigio e verde, sulla fiancata la scritta in inglese military rescue, soccorso militare. Noi chiedevamo aiuto e i militari ci fotografavano, lanciando acqua minerale e biscotti e facendo segno che sarebbero tornati». Ma non è tornato nessuno e il giorno dopo la gente inizia a morire di stenti. Prima donne e bambini, poi gli altri.«La morte più atroce è toccata a chi ha bevuto acqua salata. Abbiamo messo i cadaveri in un angolo del gommone, li abbiamo buttati in mare quando sono diventati troppi. Poi abbiamo finito le forze».Daniel non sa come ha fatto a sopravvivere.«Due settimane dopo abbiamo toccato terra in Libia, a Ziltan, e ci hanno catturato i soldati. Non ci credevo. Siamo sopravvissuti in 11, ma due sono morti in carcere. Qualche giorno dopo il comandante ci ha liberati perché la città era insorta e siamo arrivati in auto a Tripoli. Lì siamo andati in Cattedrale dove il vescovo Martinelli ci ha affidato alla Caritas che ci ha sfamati e curati». A sei superstiti, tra i quali una donna, che hanno scelto di fuggire in Tunisia, viene pagato il viaggio fino al campo Onu di Choucha. Da lì sono stati reinsediati nel nord Europa. Gli altri tre, tra cui Daniel, arrivano a Lampedusa con una nave di 760 migranti. «Oggi vivo in un centro di accoglienza fuori Milano e ho avuto il riconoscimento dell’asilo. Cerco lavoro. Ma la mia vita è cambiata, non dormo più e non potrò mai dimenticare».