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Intervista. Il presidente Assad: presto referendum in Siria. Gli errori della Ue

Fulvio Scaglione martedì 14 marzo 2017

Il presidente siriano Assad al Bashar

La pietra bianca del palazzo presidenziale di Damasco, costruito nel 1910 quando qui dominavano i pasha ottomani, luccica nel sole del mattino. Ma non è una bella giornata: due kamikaze di Tahrir al-Sham, il movimento terroristico legato ad al-Qaeda, hanno appena colpito i pellegrini iracheni sciiti, la conta dei morti ha già superato i 40 e si riaffaccia lo spettro di una capitale di nuovo sotto scacco a dispetto dei controlli e dei check point. Eppure Bashar al-Assad, il giovane oftalmologo che dal 2000 è presidente della Siria, sembra del tutto a proprio agio. Elegante, rilassato, cordiale, risponde alle domande fissando l’interlocutore con gli occhi blu ereditati dalla madre. Anche protocollo e sicurezza sembrano poca cosa, se paragonati al fatto che Assad è oggi uno dei personaggi più noti a mondo e uno dei bersagli più ambiti.

Signor Presidente, ancora morti a Damasco, ancora guerra in Siria. E pesanti come pietre le parole di Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele: «Non ci sarà mai un accordo di pace in Siria finché l’Iran non lascerà il Paese». Sembra una situazione senza via d’uscita.
Il problema siriano ha molti sfumature ed è reso ancor più complicato dalle ingerenze esterne. Attacchi terroristici come quello contro i pellegrini iracheni a Damasco sono avvenuti negli ultimi anni su base quotidiana, in certe fasi quasi ogni ora. Finché ci saranno terroristi in Siria ogni abitante del Paese sarà in pericolo, questo è certo. La domanda importante è: chi aiuta e sostiene i terroristi? Ed è una domanda che vorrei fare ai politici europei, che fin dall’inizio della crisi in Siria hanno preso una strada che ha portato alla distruzione del nostro Paese, alla diffusione del terrorismo in tutta la regione, al succedersi di attentati in Europa e alla crisi dei rifugiati. L’Europa, o per meglio dire l’Occidente perché la guida è sempre stata degli americani, ha avuto finora l’unico ruolo di cooperare con gli obiettivi dei terroristi. Non ha sostenuto alcun processo politico. Ne parla, ma senza intraprendere alcuna concreta azione. Per quanto riguarda Israele, è semplice: aiuta in modo molto diretto i terroristi, sia offrendo sostegno sia lanciando attacchi contro il nostro esercito lungo la linea di confine. L’Iran, al contrario, ci aiuta a combattere il jihadismo e ci sostiene dal punto di vista politico in Medio Oriente come presso la comunità internazionale.

E Donald Trump?
Ha speso parole molto interessanti sulla necessità di combattere ed eliminare l’Isis. Adesso aspettiamo anche i fatti.

Un altro protagonista: la Russia. Qual è la natura dei rapporti tra Russia e Siria? Cooperazione o colonizzazione? Insomma: che fanno qui, realmente, i russi?
Guardiamo ai fatti: da quando abbiamo chiesto ai russi di aiutarci e loro si sono schierati accanto all’esercito siriano, il Daesh ha cominciato a perdere terreno. Prima, finché sul terreno agiva solo quella che viene chiamata Alleanza occidentale contro il terrorismo, il Daesh si allargava. La presenza russa in Siria è stata dipinta a tinte fosche solo a partire dal momento in cui qualcuno si è reso conto dei successi che otteneva sul campo. E che la battaglia comune dell’esercito siriano e di quello russo sia un successo è un fatto, non un’opinione. La riconquista di Aleppo e Palmira e di molte altre aree lo dimostra.

E l’aspetto politico? Cooperazione o colonizzazione?
Fin dall’inizio della crisi, sei anni fa, ogni iniziativa, prima politica e poi anche militare, è stata presa dal Cremlino in consultazione e accordo con il Governo siriano. Loro si comportano così. Hanno una visione politica basata su due principi: la piena sovranità della Siria, stabilita nella Carta delle Nazioni Unite come quella di ogni altro Paese; e il rispetto di un’alleanza che è ormai vecchia più di sessant’anni e non è mai vacillata.

Signor Presidente, questa guerra ha ormai prodotto centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. Secondo le Nazioni Unite è lei il responsabile. E da molte parti le si chiede di lasciare il potere per rendere possibile un accordo di pace. Che cosa risponde? Che cosa pensa di fare?
In primo luogo, è il popolo siriano che deve scegliere il proprio Presidente e decidere chi è il colpevole di questa guerra e delle sue conseguenze. Certo non le Nazioni Unite, che non hanno alcun vero ruolo. E sappiamo anche qual è la causa: dal crollo dell’Urss, alcuni Paesi del Consiglio di Sicurezza, cioè Usa, Francia e Gran Bretagna, hanno usato l’Onu per affermare i propri interessi e rovesciare i Governi che non si allineavano ad essi. Dovrei andarmene? Per me conta solo il parere dei siriani. L’Onu e qualunque altro politico fuori dalla Siria possono dire ciò che vogliono, non me ne curo. Comunque, quando si parla dei morti e dei rifugiati, sarebbe bene ricordare che la responsabilità di una parte di quelle tragedie ricade sull’Europa. Non direttamente ma per il sostegno offerto ai terroristi fin dal principio, definiti 'moderati' anche quando si capiva che quella moderazione era solo un’illusione. Non ci sono miliziani moderati, in Siria, sono tutti estremisti. E in ogni caso, quando hai un mitra in mano, uccidi persone e distruggi beni, sei un terrorista. In Siria come in Italia come in ogni altro Paese. Non ci sono 'killer moderati' o 'terroristi moderati'. Noi, almeno, non ne conosciamo.

E i rifugiati?
Non tutti coloro che hanno lasciato la Siria lo hanno fatto a causa del terrorismo e delle distruzioni. Molti sono scappati per le difficoltà ulteriori portate dall’embargo decretato dall’Europa e dagli Usa, che ha reso ancora più difficile la vita della gente comune. Così l’embargo è diventato di fatto un alleato dei terroristi nello spingere i siriani a fuggire verso altri Paesi, in primo luogo quelli europei.

Ma lei ha, o ha mai avuto, rimpianti per il modo in cui la crisi è stata gestita da lei e dal Governo? Davvero non si sente colpevole in nulla? Se potesse tornare indietro farebbe qualcosa di diverso?
Bisogna distinguere tra il parere personale, sia pure quello del Presidente, e il dovere di un ufficiale dello Stato. Il dovere del Governo o di qualunque ufficiale è stabilito dalla Costituzione ed è di difendere il Paese. Proprio se non lo difendessimo dovremmo sentirci colpevoli. Inoltre, abbiamo sempre cercato di tenere aperto il dialogo con tutti i siriani, inclusi miliziani e terroristi, proprio per salvare più vite possibile. Non so quanti altri Paesi sarebbero disposti a discutere con dei terroristi. Così dovremmo rimpiangere di essere stati disposti a parlare e discutere con tutti? Ovviamente no.

Nemmeno un errore da qualche parte, in questi sei anni di guerra e di morte?
Ogni politica, nel modo in cui viene realizzata, ha dei margini di errore. Ma gli errori non si rimpiangono, si correggono. Ed è quanto cerchiamo di fare ogni giorno. La prego di rivolgere la stessa domanda, però, ai politici dell’Occidente: avete il rimpianto di aver sempre e solo accusato il Governo della Siria anche mentre quelli che chiamavate 'pacifici dimostranti' e 'moderati' uccidevano persone innocenti?.

Il mondo oggi si chiede quale sarà la Siria di domani. Se lei resterà al potere, avrà un’agenda di riforme sulle emergenze sociali, i diritti umani, la protezione dei cittadini rispetto all’esercito e alle agenzie di sicurezza?
La guerra è una lezione durissima per qualunque società. E noi non possiamo limitarci a prendercela con l’Occidente o con le petromonarchie del Golfo Persico che finanziano i terroristi. Dobbiamo chiederci: che cosa non funziona nel mio Paese? La mia agenda ha un caposaldo: favorire la discussione tra i siriani sul sistema che il Paese dovrà adottare. Presidenziale, parlamentare, semi-presidenziale? È un problema di Costituzione. Dalla Costituzione, poi, discende la natura delle istituzioni, dall’esercito al Governo a qualunque altra. Per modifiche di questa portata occorre un grande dibattito nazionale che porti a un referendum. Ma sembra un lusso parlare di queste cose mentre il Paese è ancora sotto attacco da parte e si rischia ogni giorno la vita. La priorità, ora, è sbarazzarsi dei terroristi per arrivare alla riconciliazione nazionale. Fatto questo, discuteremo liberamente di qualunque argomento o riforma.

Signor Presidente, la politica in Medio Oriente sembra essersi ridotta a 'uccidere per non essere uccisi'. Ma si arriverà mai a qualcosa di meglio?
È così, in effetti, ma la politica non c’entra. È un fenomeno che non è parte della nostra cultura ma che è cresciuto negli ultimi decenni a causa dell’affermarsi di una visione wahhabita che non tollera la diversità. La generazione dei miei genitori era più aperta della mia. Ed è un problema che tocca non solo le persone religiose, il rifiuto dell’altro influenza la società intera, in ogni ambito. Questo fenomeno ha avuto una grossa parte anche nella crisi della Siria. Se non impariamo a farci i conti e a combatterlo, la guerra civile diventerà un tratto permanente delle società mediorientali. Ma, ripeto, tutto questo non c’entra con la nostra cultura. Infatti lo stesso problema si è avuto in Europa, in ogni Paese dove si è permesso che il wahhabismo prendesse piede. In Francia, per esempio. Non è un caso se molti dei più feroci leader del Daesh, di al-Qaeda e di al-Nusra sono arrivati dall’Europa. Molti combattenti vengono dai Paesi arabi ma i loro capi sono quasi sempre europei. Ed è una lezione di cui tutti, noi e voi, dovremmo fare tesoro.

IL PUNTO
Una lunga fila di dossier sulle atrocità di regime

Non passa settimana senza che Ong, organizzazioni umanitarie, l’Onu, nazioni politicamente rivali e altri soggetti accusino Bashar al-Assad e il suo Governo di crimini atroci. Bombe sui civili, massacri nelle carceri, stupri di massa, pulizia etnica... Gli accusatori non si sono fatti mancare nulla. In alcuni casi con argomenti credibili, in altri sconfinando nella propoaganda. Scoprire ora, negli anni di una guerra civile in cui nessuno si è risparmiato quanto a crudeltà, che la Siria non è, quanto a sistema politico, un modello di democrazia ma un regime, è un esercizio futile e spesso ipocrita. Non è quindi sorprendente che lo stesso Assad sorvoli sul tema dei diritti umani. È la stessa Siria che negli anni tra l’indipendenza e l’avvento degli Assad era definita, nei testi di scienze politiche, "il Paese dei colpi di Stato". Lo stesso Paese che negli ultimi decenni ha affrontato almeno tre tentativi di rovesciamento violento. Lo stesso Governo che per molti anni (ma su richiesta della Lega araba, cosa troppo spesso dimenticata) ha di fatto occupato il Libano. Uno scenario, per chi parla di democrazia e diritti, non dissimile alla Libia, all’Iraq, ai Paesi del Golfo Persico, all’Egitto. Simile cioè all’intero Medio Oriente.