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Pakistan. Asia Bibi, cinque anni di bugie

Stefano Vecchia giovedì 19 giugno 2014
Oggi, a cinque anni dal suo arresto, 1.825 giorni passati dietro le sbarre e a 31 mesi dalla sentenza di primo grado che l’ha condannata a morte per blasfemia, la cinquantenne cattolica Asia Noreen Bibi è più che mai un simbolo. Resta tuttavia, e non va dimenticato, anche un dramma personale vissuto, soprattutto nell’ultimo anno, nel silenzio. Ad esporsi sono i gruppi e gli avvocati che ne sostengono la difesa il più delle volte davanti a tribunali che si negano e, ora, senza neppure la prospettiva di un’udienza che avvii un processo d’appello che possa rimediare alla condanna capitale inflitta in primo grado e allentare con una sentenza assolutoria adeguatamente perseguita e motivata la pressione degli islamisti su di lei e sulla sua famiglia. Purtroppo il 27 maggio il suo caso è stato semplicemente tolto dal calendario delle udienze dell’Alta Corte di Lahore dopo una serie di rinvii. Cinque figli, di cui tre non ancora ventenni, una vita di duro lavoro e di stenti. Di insicurezza, anche, per una famiglia tra le poche di fede cristiana in un villaggio, quello di Ittanwali, abitato da 1.500 musulmani. Giornate passate al lavoro nei campi o al servizio in famiglie di fede islamica, essenziale per l’inidoneità al lavoro del marito. Proprio con le donne musulmane, a volte Asia condivide le sue credenze religiose, spesso in modo pacifico, a volte in maniera conflittuale. La pressione alla conversione sempre presente, la donna mantiene la sua forza di fede e apertura al confronto. Confronto che il 19 giugno 2009, venerdì di preghiera per i musulmani, porta Asia Bibi a una discussione più accesa di altre sul senso della solidarietà evangelica e sull’attualità di Cristo, vivo per i battezzati, contrariamente a Maometto per i musulmani. Una dichiarazione, quest’ultima, considerata blasfema dalle vicine di fede islamica che prima la rinchiudono e poi la consegnano alla polizia intervenuta perché chiamata dalla famiglia che temeva un’umiliazione pubblica o il linciaggio. Nonostante le pressioni dei cristiani locali, i funzionari accolgono lo stesso giorno la denuncia per blasfemia, procedendo all’arresto, anche come misura per evitare ritorsioni da parte di islamisti esaltati dalla propaganda diffusa con gli altoparlanti dalla moschea. Diciassette mesi dopo la sentenza di colpevolezza per avere violato l’articolo 295 C del Codice Penale pachistano (che prevede il delitto di oltraggio al profeta Maometto), uno di quelli comunemente definiti “legge antiblasfemia”, in vigore dal 1986. Da allora Asia Bibi ha vissuto in un alternarsi di speranze e delusioni nell’attesa della convocazione della prima udienza del processo di secondo grado, arrivata finalmente per il 14 febbraio scorso ma poi rinviata più volte e infine cancellata sine die. Difficile immaginare come stia vivendo Asia Bibi questi giorni nel carcere femminile di Multan, in un silenzio ancor più significativo a fronte di anni, dalla condanna a morte decretata dalla Corte di Nankhana Sahib l’11 novembre 2010, in cui la sua vicenda è stata segnalata, analizzata, presa a carico dalla comunità internazionale, seguita con impegno e con coraggio all’interno. Accompagnata anche dal sacrificio di personaggi che hanno pagato l’impegno a modificare una legge ingiusta, che per tutelare i fondamenti della fede islamica è diventata strumento di repressione delle minoranze ma anche del istanze di convivenza e di uguaglianza di molti pachistani. «Lo slancio di tanti cristiani che avevano fatto la scelta di sostenere la causa di Asia Bibi è stato bloccato dai terribili assassinii all’inizio del 2011 del governatore musulmano del Punjab, Salman Taseer, e del ministro per le Minoranze, il cattolico Shahbaz Bhatti – ricorda padre James Channan, domenicano, esponente di primo piano del movimento per il dialogo e la tolleranza nel Paese –. In generale i cristiani sono intimiditi al punto da non osare più parlare apertamente di una modifica della legge o a favore di Asia Bibi». «Importante ricordare – sottolinea padre Channan – che, come per i condannati in base alla legge antiblasfemia, almeno fino a una sentenza assolutoria finale che è la norma nei casi simili a quelli di Asia Bibi finora giudicati, anche chi ne prende le difese espone a persecuzione non solo se stesso, ma l’intera comunità di appartenenza». Occorre aggiungere che nemmeno una sentenza favorevole, poi, garantisce l’incolumità di chi viene assolto e liberato. Proprio come il caso di Asia Bibi dimostra e altri casi meno conosciuto hanno tragicamente confermato, maggiori sono esposizione mediatica e interesse per la vicenda, più questi vengono percepiti come minacce all’islam. «Io e molti attivisti cristiani e delle minoranze che ci siamo impegnati per la liberazione di Asia Bibi a fronte però di una sentenza giudiziaria che le desse coerenza, abbiamo dovuto modificare il nostro atteggiamento per non mettere ancor più a rischio la vita della donna – ricorda anche Paul Bhatti ex ministro per l’Armonia religiosa e fratello di Shahbaz –. Abbiamo quindi deciso di cercare la strada del dialogo con i musulmani, i molti che sono sinceramente impegnati per la giustizia, per rendere possibile a tutti di vivere senza rischi e discriminazioni in questo Paese. Capiamo e ci scandalizziamo per le tensioni che bloccano l’appello, ma non possiamo pretendere dai giudici un sacrificio estremo che non avrebbe alcun effetto sulla sorte di Asia». Ricordo – prosegue Bhatti – che diversi sono già rimasti vittime di questa vicenda e che a marzo l’attacco di attentatori suicidi a una Corte distrettuale della capitale Islamabad con 11 morti ha dimostrato a che punto possono arrivare animosità politica e odio religioso. Lo scandalo è di un Paese che non garantisce la legalità. Per questo siamo impegnati anzitutto nel salvare la vita a Asia Bibi e poi a procedere gradualmente per una revisione della legge che consente casi drammatici come il suo».