Mondo

L'analisi. Arabia Saudita, perché il gigante è malato

Giorgio Ferrari domenica 10 gennaio 2016
Da quando nel 1938 il pozzo Dammam numero 7 cominciò a pompare petrolio, l’Arabia dominata dalla famiglia Saud si trovò a possedere la più grande riserva mondiale di petrolio e una delle più vaste di gas naturale: sotto la sabbia del deserto, sotto le fondamenta dei faraonici palazzi del potere di Riad si nascondono riserve di greggio per almeno 267 miliardi di barili, solo recentemente superate nelle stime dai 297 miliardi del Venezuela. In realtà il petrolio, che rappresenta tuttora il 95% delle esportazioni e il 70% delle entrate del regno, si annida principalmente nella provincia orientale di Al-Sharqiyya, da cui si ricava quasi l’80% del greggio saudita. Un greggio a buonissimo mercato, visto che produrlo costa solo 2 dollari al barile. Cuore della provincia è la città di al-Qatif, il più grande crocevia di oleodotti del mondo, a due passi da Dhahran – sede della Aramco, la compagnia petrolifera nazionale – e dall’immenso terminal petrolifero di Ras Tanura. Da qui parte ogni giorno per il mondo l’oro nero saudita. È importante porre l’attenzione su questo spicchio del regno di re Salman: i suoi quattro milioni di abitanti sono in prevalenza sciiti, come sciita di al-Qatif era l’imam Nimr al-Nimr, decapitato qualche giorno fa. Al-Nimr, considerato il meno radicale fra gli sciiti sauditi, aveva capeggiato le proteste del 2011, l’anno delle primavere arabe e della rivolta nel Bahrein, ma per Riad era soprattutto un leader ritenuto pericoloso per l’unità territoriale del regno: «Tutto quel petrolio, quel gas naturale, quella ricchezza, insomma su cui vive e prospera da decenni l’Arabia Saudita – dice Mansour Alnoigadan, direttore del Centro studi e ricerche al-Mesbar di Dubai – sta sotto le scarpe di una minoranza sciita. Una minoranza che comincia a far paura, perché tutti sanno che negli appetiti di Teheran c’è proprio la zona petrolifera delle province orientali. Chi avesse in mano quella, avrebbe in mano il mondo ». Ed è esorcizzando questo timore che Riad soffia sul settarismo sciita provocando la reazione di Teheran.«A dangerous sectarian game» , un gioco settario pericoloso, come ha scritto il New York Times, ma è l’unico gioco che in questo momento  l’Arabia Saudita, gigante malato del tormentato scacchiere  mediorientale, è in grado di condurre. Perché quella che in questi giorni di altissima tensione fra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita culla dell’ortodossia sunnita appare come la fiammata estrema di una guerra di religione non è forse altro che una guerra combattuta con l’arma del petrolio. La coltre della diaspora millenaria fra le due anime dell’islam non basta infatti a celare il nocciolo duro dei veri interessi che da un anno a questa parte agitano i sonni dell’ottantenne Salman  bin Abd al-Aziz Al Saud, salito sul trono esattamente un anno fa. Un anno vissuto pericolosamente e altrettanto pericolosamente scarno di successi: a picco le relazioni con lo storico alleato americano, in difficoltà nelle  campagne militari contro gli Houti nello Yemen e contro gli sciiti hezbollah in Siria, e soprattutto con un’economia messa a dura prova dal crollo dei prezzi del petrolio, tanto da aver costretto il sovrano a tagliare sussidi, a imporre tasse e imposte un tempo sconosciute e a una stretta di cinghia assolutamente inedita nell’Arabia Felix. Ma è soprattutto con il petrolio che Riad ha giocato duro, producendone in eccesso nonostante la contrarietà, le suppliche e perfino le minacce degli altri membri dell’Opec, tanto da far crollare le quotazioni fino a far giungere il barile sotto la soglia dei 30 dollari con un danno complessivo per i 13 Paesi del cartello attorno ai 500 miliardi di dollari e un previsto decremento del Pil nei prossimi due anni di 10 punti per l’Oman, 5 per gli Emirati e il Qatar e una cifra incalcolabile per il Venezuela. Il che non ha certo aumentato la simpatia dei produttori di petrolio per l’ingombrante leader saudita. In realtà però l’uso dell’arma del greggio aveva un duplice disegno. All’origine sembrava avere un scopo puramente commerciale: rendere troppo onerosa l’estrazione di  shale gas, il gas di scisto argilloso di cui gli americani hanno incrementato la produzione raggiungendo così una sostanziale  indipendenza energetica. Sul piano della concorrenza Riad si sentiva al sicuro: dei loro oltre 150 miliardi di barili di riserve gli iraniani potevano fare ben poco, dal momento che le sanzioni del 2012 gli impedivano di esportare greggio. Ma con gli accordi di Vienna fra Teheran e Washington sul nucleare e la revoca delle sanzioni l’Iran rischia di ritornare ad essere il peggior competitor di Riad, essendo di nuovo in grado di produrre 3–4 milioni di barili al giorno esportandone 2,5 milioni e il fatto non è più soltanto commerciale ma anche e soprattutto politico. Ritorniamo dunque all’Arabia Saudita. La prova muscolare sul mercato del greggio, le guerre maldestre in Siria e Yemen, le esecuzioni capitali in massa non valgono a nascondere – come dice Bernard-Henri Lévy in un editoriale su Le Point – «un regime instaurato da un secolo ma che tutti gli osservatori sono concordi nel definire corrotto, guasto, in declino, sempre più evidentemente inadeguato ad assicurare la propria durata nel tempo». Il grande malato, insomma. Dal quale si comincia a prendere le distanze. E le contromisure.