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L'analisi. La barbarie dei taleban e il sonno dell'Occidente in Afghanistan

Fabio Carminati mercoledì 21 dicembre 2022

Con il turbante calcato in testa e il kalashnikov di traverso sulla schiena per tanti i taleban sono solo sono l’immagine perfetta di ciò che sono: anacronistici, fuori dalla storia o meglio rimasti dal lato sbagliato. Ma sono al potere e governano, senza risponderne a nessuno e soprattutto fuori dal cono di luce dei riflettori. Che si rianimano solo quando le accelerazioni sono palesi: come il divieto alle donne di sedere sui banchi delle università. Provvedimento che ha solo seguito il blocco delle immatricolazioni mesi fa. Niente di nuovo sotto il sole dell’Oriente e del comportamento per converso dell’Occidente. «Una mossa unica al mondo che viola i diritti e le aspirazioni degli afghani e priva l'Afghanistan del contributo delle donne alla società. La persecuzione di genere è un crimine contro l'umanità», come ha tuonato la Ue. Nell’agosto di due anni fa le parole era state le stesse, proprio mentre l’ultimo Globemaster americano si sollevava dalla pista di Kabul. E’ giusto accusare i taleban di «barbarie»? Non ci sono dubbi.

Ma è altrettanto giusto addossare a loro tutta la colpa, o meglio trasformarli nell’unica ragione di tutto questo? Nel solo capro espiatorio? Ecco, qui i dubbi crescono.

In vent’anni e pochi mesi, solo gli americani hanno speso 2.200 miliardi di dollari per fare guerra al terrore, per dare la caccia a quel Benladen che i pachistani nascondevano all’Amministrazione americana proprio in bella vista: a casa loro. Come italiani abbiamo partecipato alle missioni di «pace» e abbiamo perso uomini, mandato gli alpini nel loro terreno ideale di azione: il deserto. Dover peraltro hanno dimostrato come gli altri uomini e donne della missione di avere qualcosa di molti più importante della penna sul cappello, del basco o dell’elmetto: il cuore. E ostinatamente difeso i nostri blindati come indistruttibili agli Ied, quegli ordigni improvvisati che hanno ucciso anche i ragazzi arrivati dall’Italia. In vent’anni Washington ha creato una serie di buchi neri che ha chiamato prigioni e costruito un’intelligence che solo una settimana prima che Kabul cadesse giurava che era «remota» la possibilità che ciò accadesse entro mesi.

In mezzo a questo le donne di Kabul erano lì. Come lo sono oggi. Oggi nascoste sotto il burqa, chiuse in casa e private di ogni liberà. Ieri libere, ma con la possibilità di contare pari a una cifra percentuale che mai è riuscita a raggiungere la doppia cifra. E’ forse anche questo che brucia dopo la fuga precipitosa da Kabul: non essere stati in grado di costruire una rete di protezione, inculcare gli anticorpi che potessero servire a difendere la società afghana dal buio che aveva già conosciuto prima del 2001. Senza ingerenze culturali, senza costrizioni contro i costumi. Semplicemente concedendo la possibilità alla popolazione e alle donne in particolare di scegliere.

E qui che l’Occidente ha fallito, hanno detto in tanti. Che è tornato con una «missione incompiuta» che tanto stride con quel «mission accomplished» pronunciato dal presidente George W. Bush sul ponte della portaerei Abraham Lincoln il primo maggio del 2003. Tornare indietro non si può, riavvolgere il nastro è impossibile. Parlarne, scriverne della condizione di queste donne è sicuramente importante. Non commettere lo stesso errore e rimediarci, magari non facendosi rapire dai fatti vicini e guardando invece dal verso giusto con quel cannocchiale che spesso viene impugato al contrario, da noi stessi che scriviamo. Ma facendolo giorno, non solo quando fa notizia. Anche se ciò mette «fuorimercato». ​