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Stati Uniti. Usa verso il voto, non c'è solo l'economia

Elena Molinari domenica 8 novembre 2015
Per la prima volta dal 2008, non c’è solo l’economia in testa alle preoccupazioni degli americani che, fra un anno esatto, sceglieranno il loro 45esimo presidente. E capire quali temi stanno a cuore agli elettori statunitensi in questi mesi e come sta cambiando il corpo elettorale aiuta a dedurre quale dei due partiti ha maggiori probabilità di conquistare la Casa Bianca l’8 novembre 2016. In queste settimane i sondaggi mettono in evidenza che gli americani sceglieranno il loro candidato in base alle sue opinioni sull’immigrazione, sulle nozze gay, sul controllo delle armi e su come propone di riformare il governo federale. L’economia resta comunque ai primissimi posti più che come inquietudine generale (come lo era durante la recessione) come disagio nei confronti di salari stagnanti e di tasse e spese sanitarie in aumento. Solo più in giù nella lista dei temi che contano vengono la sanità per gli anziani, le pensioni e il deficit federale. La paura del terrorismo è ultima, con solo l’8% degli elettori che la considera decisiva. Ma le ricerche sottolineano anche che, a 12 mesi dalle elezioni, gli americani sono insoddisfatti della politica. Meno di un terzo crede che il Paese sia governato nel suo interesse: esattamente come nel 2014, quando gli americani scelsero il cambiamento e affibbiarono una batosta elettorale ai democratici. La conclusione più ovvia è che dai seggi emergerà un altro cambiamento. Ma con due partiti opposti in carica alla Casa Bianca e al Congresso quale verrà punito? Barack Obama (democratico) gode di un gradimento attorno al 43%. Camera e Senato (a maggioranza repubblicana) non superano il 15% di approvazione. Ma se le questioni di soldi sono scese dal primissimo posto nelle priorità degli elettori non è perché gli americani siano convinti di stare bene. I motivi sono diversi. Da un lato, l’economia conta meno quando la corsa per la presidenza è aperta, come sarà nel 2016, rispetto a quando vi è un Commander in chief in carica sulla scheda elettorale per il quale il voto diventa un referendum. Dall’altro, le inchieste d’opinione mostrano che gli elettori Usa sono più che altro sollevati  che la loro situazione finanziaria almeno non stia peggiorando, sostenendo in maggioranza – al 53% – di sperare di «rimanere dove sono». Nella percezione degli elettori un relativo miglioramento conta dunque di più di una condizione economica oggettivamente discreta.  Se in ambito economico gli americani sembrano d’accordo che la ripresa comincia a farsi sentire (anche se non abbastanza), quando parlano di immigrazione intendono cose diverse. Gli elettori bianchi e quelli meno istruiti in maggioranza la temono, e tendono a preferire candidati che, come Donald Trump e altri repubblicani, propongono di costruire muri al confine con il Messico. Quelli di origine latinoamericana premono invece per una riforma che aiuti gli immigrati senza documenti ad ottenere la residenza permanente, voluta soprattutto dai democratici. Questi ultimi numericamente sono di più. Gli ispanici sono il più grande gruppo di minoranza negli Stati Uniti, pari al 17% della popolazione, e il loro numero è destinato a crescere: entro il 2060 saliranno al 29%. Ogni 30 secondi, un cittadino latino compie 18 anni e ottiene il diritto di voto, pari a 66mila al mese. Sarebbe un peso elettorale enorme se non fosse ridotto da una scarsa affluenza alle urne. Il numero di voti degli ispanici è infatti inferiore a quello degli asiatici – che costituiscono il 5% della popolazione. Solo il 48% dei latinos aventi diritto si è recato alle urne nel 2012, quando il 67% dei neri e il 64% dei bianchi si è espressa.  Parte del problema è la giovinezza della popolazione ispanica, che ha una età media di 28 anni e cade nella fascia con meno probabilità di votare. Negli Usa, inoltre, per votare bisogna in precedenza registrarsi presso un ufficio pubblico e i latinos non lo fanno. In Texas, ad esempio, 2,2 milioni di ispanici sono registrati, ma altri 2,6 milioni sono ammissibili ma non registrati. La situazione è simile in Arizona, Colorado e Florida, tutti potenziali Stati chiave per i candidati alla presidenza. Bisogno però chiedersi se gli attacchi di Trump spingeranno i latinos a votare in massa. «Il 2016 elezione sarà una prova di carattere della comunità latina – dice il politologo Charlie Cook –. Quando qualcuno usa la demagogia a loro spese, si tireranno indietro intimiditi o moltiplicheranno i loro sforzi?».