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Coronavirus. Amazzonia, il virus non ha sconfitto la gente del fiume

Lucia Capuzzi domenica 21 marzo 2021

La giornata di lavoro sul fiume delle donne riberinhas

Ha il nome di una regina e condottiera persiana: Artemizia. Nessuno, nel villaggio di Xixuaú e nel resto del Parco dello Jauaperí, però, la chiama così. Per i 1.200 abitanti sparsi su 581mila ettari di Amazzonia, a cavallo degli Stati brasiliani di Amazonas e Roraima, è semplicemente «l’infermiera». Ogni giorno, con la divisa incredibilmente candida nonostante l’afa tropicale, Artemizia de Nazare Brazão, 38 anni, visita le famiglie capanna per capanna. Percorre le enormi distanze a piedi o in canoa per spiegare come difendersi dal virus. Eppure il contratto da operatrice sanitaria le è scaduto a novembre e, da allora, né il governo locale né quello nazionale hanno pensato di rinnovarglielo.

Anche Aluisio e Marcio sono “volontari”: dopo il lavoro di cac- cia, raccolta e agricoltura, organizzano momenti di formazione e prevenzione nelle 14 comunità del Parco. Sono stati loro a imporre la quarantena a quanti tornavano dalla città, a deliberare l’impiego della mascherina e il divieto di assembramenti. Una scelta e una necessità. Dimenticata dalle autorità, la “gente del fiume”, sa di dover portare avanti la battaglia contro il Covid in solitudine. Non è una novità. I Ribeirinhos o Caboclos sono gli invisibili fra gli invisibili dell’Amazzonia. Un gradino sotto i già maltrattati popoli indigeni. A differenza di questi ultimi, non sono abitanti originari. Sono, bensì, i discendenti dei coloni che, soprattutto a partire dal Novecento, furono spediti nella foresta dalle diverse parti del Brasile con la promessa di «terra e opportunità».

In realtà, la gran parte fu arruolata come manodopera schiava dei diversi cacciatori di risorse – in primis i “grandi signori del caucciù” – che, depredato il depredabile, andarono a investire i profitti nelle metropoli del resto del Paese. I coloni, disoccupati, rimasero e si mescolarono – per altro in modo non sempre pacifico – con i nativi. «Da questo incontro tra Europa e indios, è nata una cultura originale.

I Ribeirinhos o “rivieraschi” condividono il rispetto profondo per i ritmi dell’Amazzonia. Al contempo, il loro essere meticci li rende ancora più emarginati», spiega Emanuela Evangelista, biologa, romana di nascita e trentina d’adozione, che ha scelto di vivere a Xixuaú per dedicarsi, con Amazônia Onlus, alla difesa dei popoli della foresta. Per il suo impegno, l’anno scorso, il presidente Sergio Mattarella l’ha insignita dell’Ordine al merito della Repubblica italiana. In particolare, l’organizzazione ha accompagnato i locali negli oltre dieci anni di lotta per ottenere, nel 2018, il riconoscimento legale del Parco come «riserva protetta».

Un traguardo importante anche se non c’è nessun controllo istituzionale per arginare le incursioni di trafficanti di legname, specie protette e altre materie prime. Per proteggere se stesso e la foresta, la “gente del fiume” – oltre sette milioni di persone sui 25 milioni dell’Amazzonia brasiliana – ha imparato ad auto-organizzarsi.

Lo stesso ha fatto con l’irruzione del Covid. «Dall’inizio della pandemia, abbiamo ricevuto due visite mediche inviate dal municipio e un rifornimento di viveri a settembre dallo Stato. Null’altro. E qui non c’è assistenza sanitaria – racconta Emanuela Evangelista –. Per curarsi, le persone devono recarsi nella città più vicina, Novo Airão, che dista fino a 24 ore di barca. Pochi, poi, possono permettersi la benzina per raggiungerla. Oltretutto le terapie intensive si trovano a Manaus, lontana 500 chilometri. Per evitare la strage, i Ribeirinhos dello Jauaperí hanno fatto uno straordinario sforzo collettivo».

Anche ora che la seconda ondata devasta la regione e le vaccinazioni procedono a rilento. Con quasi 11,8 milioni di casi e oltre 288mila morti, il Gigante del Sud è il secondo Paese più colpito al mondo dopo gli Usa. Oltre 1,7 milioni di contagiati e 41mila vittime sono nell’Amazzonia brasiliana. Dati sottostimati per la carenza di test. Nel Parco di Jauaperí, una settantina di persone è stata infettata ma finora non sembrano esserci stati decessi. «Il condizionale è d’obbligo, nessuno fa esami – conclude la studiosa e attivista –. Ma di certo il tessuto comunitario è stato un argine prezioso».