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NOSTRA INCHIESTA. Al-Qaeda, droga & jihad Le nuove rotte dall'Africa

Lucia Capuzzi mercoledì 12 settembre 2012
Centocinquanta milioni di dollari, nell’economia dei grandi gruppi criminali, sono un capitale appena discreto. Equivalgono alla vendita di 3 tonnellate di coca: gli europei le consumano in poco più di una settimana. Forse è per questo che l’opinione pubblica internazionale non ha dato troppo peso alla recente decisione della Giustizia statunitense di congelare un conto della Lebanese Canadian Bank (Lcb), con sede a Beirut, su cui c’erano appunto 150 milioni. Nell’ordine firmato dalla Procura di New York si legge che il denaro era diretto a finanziare Hezbollah (il Partito di Dio), organizzazione terrorista secondo Washington. Il nodo della vicenda va, però, ben al di là. Seguendo il flusso di quei 150 milioni, le autorità americane hanno ricostruito un’intricata rete di riciclaggio di denaro. Una ragnatela finanziaria che connette due universi paralleli e apparentemente incomunicabili: i cartelli della droga messicani e la galassia di sigle dell’estremismo islamico. Ad accomunarli non è l’ideologia ma il business. E la necessità di rendere il più remunerativa possibile la coabitazione nella nuova frontiera del traffico mondiale di droga: l’Africa.La nuova “via della coca”L’allarme è scattato nel 2010. Il 29 dicembre, una Corte Usa, accusò tre militanti di al-Qaeda – Oumar Issa, Harouna Tore e Idriss Abelrahman – di fornire appoggio logistico ai narcos messicani per introdurre droga in Europa attraverso l’Africa. I tre erano stati arrestati qualche mese prima in Ghana da un gruppo di agenti sotto copertura dell’agenzia anti-droga Usa, la Drug Enforcement Administration (Dea). Con questi ultimi – che si erano presentati come boss della coca – i qaedisti si erano impegnati a nome dell’organizzazione a garantire un passaggio sicuro ai carichi. In cambio di un “pedaggio” di 4.200 dollari per ogni chilo trasportato. Già da dieci anni – quando hanno soppiantato i colombiani e assunto il predominio del traffico internazionale di droga –, i cartelli messicani hanno cominciato a diversificare le rotte e i mercati per aggirare i controlli e moltiplicare i guadagni. Ora, un 40 per cento della coca prodotta tra Colombia, Perù e Bolivia viene esportato negli Usa attraverso la porosa «Linea»: gli oltre 3mila chilometri di frontiera tra Messico e Stati Uniti. Un altro 40 per cento va in Europa, preziosa porta anche verso Russia e Asia. Quasi mai, il viaggio è diretto. Le tappe intermedie riducono il rischio che i carichi siano intercettati. Aerei o navi imbottiti di stupefacenti partono da isole caraibiche poco vigilate – in primis Haiti – o soprattutto dal Venezuela. E arrivano in Africa occidentale: quella fascia compresa tra il Senegal e la Nigeria dove la fragilità istituzionale impedisce allo Stato il controllo di ampie zone. Le stesse “terre di nessuno” dove al-Qaeda – nelle sue varie ramificazioni regionali, da Aqmi a Boko Haram – si è radicata da tempo. Lì accumula parte delle risorse necessarie per portare avanti il jihad contro l’Occidente. Contatto in AfricaNarcos messicani e gruppi qaedisti hanno interessi speculari. I primi – come denunciato al Congresso il 16 maggio dalla Dea – hanno una presenza criminale stabile in Africa almeno dal 2009, quando il massiccio dispiegamento di forze lungo la Linea li ha spinti verso strade alternative. Se nel 2004 – in base a dati Onu – meno di 3 tonnellate di coca prendevano «la via africana», ora si parla di oltre 35, per un valore che supera il miliardo di dollari. Per i trafficanti è fondamentale che la droga viaggi indisturbata attraverso il Sahara, raggiunga le coste e da lì porti europei, da Gioia Tauro a Rotterdam. Gli jihadisti, invece, hanno necessità di soldi per finanziare le attività terroristiche. E il “colpo di fulmine” tra i due era inevitabile. Ernesto Savona – esperto di crimine organizzato e direttore dell’istituto Transcrime dell’Università Cattolica – preferisce parlare di «matrimonio di convenienza»". Anzi nemmeno: «Si tratta di alleanze a breve termine, dettate dal guadagno. Non c’è alcuna matrice ideologica», spiega ad <+corsivo>Avvenire<+tondo>. È vero. C’è, però, un risvolto concettuale indiretto. La coca diventa per al-Qaeda un’altra arma di guerra contro il «degenerato» Occidente. Nel pensiero jihadista, quest’ultimo si combatte sfruttando i suoi stessi vizi. Non a caso gli attentati dell’11 settembre 2001 colpirono, dal punto di vista simbolico e materiale, il cuore della finanza mondiale, “punendo” l’insaziabile sete di denaro. Ora, inondare di droga l’Occidente, non è altro che un attacco meno spettacolare, un «jihad a bassa intensità». Il Partito di Dio A far da intermediari tra cartelli messicani e jihadisti sono in genere libanesi, militanti di Hezbollah. Questi ultimi e al-Qaeda fanno affari da tempo. Non per affinità religiose – gli uni sono sciiti e gli altri sunniti – ma per questioni di business. L’ambigua natura di Hezbollah – insieme partito politico e organizzazione clandestina – gli consente di avere rapporti più facili con una rete di banche “amiche”. L’intermediazione del Partito di Dio è fondamentale, dunque, per riciclare il denaro destinato al jihad. Anche coi narcos, Hezbollah si conosce da vecchia data. «Grazie ai suoi nuclei stabilmente insediati nella Triple Frontera – Argentina, Paraguay e Brasile – ha avuto ottimi rapporti prima con la guerriglia colombiana e poi coi messicani», dice Sebastian Rotella, reporter statunitense tra i primi a studiare le relazioni tra narcos e jihadisti. «Neve», auto e dollariA confermare le preoccupazioni della Dea, meno di un anno fa, è esploso il caso di Ayman Saied Joumaa, detto Junior, 47 anni, libanese, proprietario del prestigioso Hotel Palace di Beirut e con un curriculum criminale di tutto rispetto. Militante di Hezbollah, naturalizzato in Colombia, è ora accusato negli Usa di essere a capo di una banda di riciclatori di denaro proveniente dalla “neve” spacciata. Impegnati a ripulire il denaro del cartello messicano de Los Zetas al ritmo di 200 milioni di dollari al mese, tra il 1997 e 2010. Il cuore della rete era appunto la Lebanese Canadian Bank (Lcb), definita dal Tesoro Usa «una lavatrice di soldi sporchi». Questa – grazie i buoni uffici di Junior – riceveva il contante dai narcos, lo inviava negli Usa e lo “parcheggiava” in cinque banche pulite. Il denaro era rimesso in circolazione mediante l’acquisto di auto usate, comprate in America e rivendute in Africa occidentale. «Un commercio redditizio, data la forte richiesta e gli alti prezzi delle auto di seconda mano nel mercato africano. Così i trafficanti si assicuravano un ulteriore incremento del denaro – conclude Savona – in modo da ammortizzare i “costi di riciclaggio”». Ovvero la “parcella” riscossa da Joumaa, al momento latitante, e girata sui conti di Hezbollah: tra il 10 e il 14 per cento del denaro ripulito. Il cerchio criminale si chiude, unendo America Latina e Medio Oriente. O meglio, i morti ammazzati della narco-guerra centroamericana – 120mila in sei anni nel solo Messico secondo le ultime stime dell’Istituto di statistica – alle vittime delle stragi in Iraq e Afghanistan. Al centro c’è l’Africa. E lo spettro che la guerra della droga allunghi la sua ombra sinistra anche sul Continente, sbarrandogli il passo, ancora incerto, sulla via dello sviluppo democratico.