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Intervista. Andrea Riccardi: «Aleppo non deve morire»

Luca Geronico giovedì 12 giugno 2014
Non dimenticare Aleppo. Resistere con Mosul, per continuare a sperare per il Medio Oriente. Questo l’appello di Andrea Riccardi, ministro della Cooperazione internazionale nel governo Monti e fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Riccardi è intervenuto ieri sull’escalation di violenza in Iraq dove – ha detto – «è in atto una catastrofe umanitaria». Nel nord del Paese, in particolare a Mosul, «un’esplosione di violenza estremista sta compromettendo il successo di un progetto di integrazione religiosa e di sviluppo sociale, basato sulla convivenza fra cristiani e musulmani», ha affermato aggiunto. A Mosul rischia di ripetersi il dramma di Aleppo. Quest’ultima, ha ricordato Riccardi, è «Aleppo è una città assediata, sotto le bombe, una città affamata da cui i cristiani non possono uscire perché, se escono, la loro vita è a rischio».Nel comunicato di Sant’Egidio, di una settimana fa, dopo l’attacco all’arcivescovado armeno cattolico di Aleppo, si parla di un «ulteriore imbarbarimento» della situazione. Quando vi è una perdurante pressione violenta questa degenera in un imbarbarimento delle relazioni, della vita quotidiana. Non possiamo dimenticare che due vescovi di quella città, il greco ortodosso Boulos Yazigi e il siro ortodosso Yohanna Ibrahim, sono stati rapiti a pochi chilometri da Aleppo. È una Chiesa in parte decapitata, a cui se si aggiunge da ultimo il bombardamento dell’arcivescovado armeno cattolico, si ha il quadro della tragedia. Non dimentichiamoci che la città vecchia di Aleppo è per l’Unesco un patrimonio dell’umanità, una città meravigliosa, testimone di una millenaria convivenza tra cristiani e musulmani. Era una città dove si viveva bene assieme. Tutto questo rischia di essere distrutto e noi lo ignoriamo. Come ignoriamo la Siria. Per questo almeno per Aleppo ci vogliono delle misure concrete: un corridoio umanitario, una forza di interposizione...Il vescovo di Aleppo Antoine Audo, intervistato da Avvenire, chiede espressamente di una forza di interposizione internazionale. Lei pensa che possa essere questa, dopo il fallimento di Ginevra 2, una soluzione?Il fallimento di Ginevra 2 è il fallimento di un approccio globale. Proviamo a sottrarre pezzi di territorio alla spirale della violenza. Cioè, non è ancora il momento di una pace generale?No, io credo che sia sempre il momento per la soluzione globale, ma nel frattempo dobbiamo provare a garantire la vita dei cittadini siriani di tutte le confessioni e la sopravvivenza di una città. Perché distruggendo quella città si distruggono donne, uomini, anziani e bambini, ma si distrugge anche un tessuto secolare che non si può più ricostruire perché quella città è un giacimento di secoli di vita comune che salta. Non è solo una questione di monumenti, ma è quell’intreccio tra uomini, storia e monumenti che faceva di Aleppo la bella e la grande. Questo è il dramma, per giunta che avviene nel silenzio. Allora si studino i modi opportuni: forze di interposizione, corridoi umanitari. Ma si deve intervenire, non si può tacere!Finora, anche sui corridoi umanitari, solo un balbettio delle Nazioni Unite, qualche bozza di risoluzione...Solo qualche bozza di risoluzione, una impotenza delle Nazioni Unite e una incapacità strutturale di realismo e di senso di umanità. Sono molto duro con il governo siriano: ha soffocato l’opposizione non violenta, ma noi l’abbiamo lasciata soffocare. Dopo di che gli occidentali si sono buttati su un’opposizione armata sempre più violenta e con un gioco di interessi dei Paesi del Golfo. Ora si richiede una riflessione rinnovata sugli attori in campo in modo realistico: quindi anche sul ruolo che il governo siriano può avere. Ma non crediamo che lì si possa pacificare senza la Russia e anche, ricordiamolo, senza la Turchia. Se Damasco è il simbolo del regime, se Homs è il simbolo di una resistenza tragica, Aleppo è comunque la città della convivenza. Potrebbe essere la città del nuovo inizio?Aleppo potrebbe essere l’inizio di uno spazio di pace che poi dilaga. Dobbiamo tracciare una linea non più tra governo e opposizione, ma tra quelli che vogliono far sopravvivere la Siria e quelli che invece vogliono distruggerla. Questo è il punto: dobbiamo innovare la nostra carta politica.