Mondo

INCHIESTA. Aids, Africa e bugie

Riccardo Cascioli sabato 28 marzo 2009
L’ultima in ordine di tempo è stata la rivista medica britan­nica The Lancet, che – a pro­posito dell’efficacia del preservativo nel­la prevenzione dell’Aids – in un edito­riale diffuso ieri ha duramente attacca­to il Papa accusandolo di «falsità scien­tifiche » che potrebbero avere «conse­guenze devastanti per la salute di mi­lioni di persone». Anche se colpisce la vi­rulenza dell’attacco da parte di una ri­vista che pure, in passato, ha ospitato studi e analisi che avanzavano dubbi sul preservativo come «soluzione» all’Aids, l’argomento non è certo nuovo e in que­ste settimane è stato sbandierato ripe­tutamente da scienziati, politici, capi di governo. Del resto, già nell’aprile 2005 sulle co­lonne del giornale britannico The Guar­dian si leggeva che «con il suo divieto del preservativo, la Chiesa sta provocando milioni di morti nelle zone dominate dai missionari, in Africa e nel resto del mondo». Come sempre, però, chi lan­cia queste accuse omette di portare e­sempi concreti a sostegno di questa te­si. Eppure, dovrebbe essere abbastanza semplice verificarne l’esattezza: sicco­me la presenza dei cattolici nei Paesi a­fricani varia molto da Paese a Paese, e altrettanto varia è la diffusione dell’Aids, se certe accuse fossero vere si dovrebbe riscontrare una più alta prevalenza del­l’infezione nei Paesi dove maggiore è la presenza cattolica. Come i dati pubbli­cati a fianco segnalano efficacemente, però, non solo tale relazione è smenti­ta dalla realtà, ma addirittura si nota co­me a un’alta percentuale di cattolici nel Paese si correli a un inferiore tasso di in­fezioni. La presenza cattolica non è certo l’uni­co fattore che mantiene bassa la diffu­sione dell’Aids (fenomeno che si ri­scontra anche in alcuni Paesi a mag­gioranza islamica, senza contare il con­tributo di importanti elementi sociali, culturali ed economici), ma certamen­te nel suo insieme i dati reali dimostra­no che laddove si vive un’esperienza di Chiesa si hanno conseguenze positive anche nella lotta all’Aids. Un fatto che è stato riconosciuto anche dall’UnAids (l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa della lotta a questa epidemia) che infatti dal 1999 ha voluto siglare un memorandum d’intesa con Caritas In- ternationalis – tuttora in vigore –, rico­noscendo l’efficacia del lavoro della Chiesa nel «promuovere la consapevo­lezza del problema, soprattutto tra i gio­vani, nella prevenzione di nuove infe­zioni, sostenere i diritti di coloro che so­no malati, promuovere l’accesso all’as­sistenza e alle terapie, eliminare le di­scriminazioni contro i malati a tutti i li­velli della società». In effetti, i motivi dell’influenza positi­va della Chiesa nella prevenzione del­l’Aids vanno ben oltre la tendenza dei cattolici a seguire gli insegnamenti mo­rali del magistero. Gli strumenti princi­pali con cui si manifesta l’attenzione al­l’integralità e alla dignità della persona umana caratteristica dell’esperienza cattolica sono infatti il lavoro educati­vo e sanitario, servizi che sono aperti a tutti, cattolici e non. Non a caso la stes­sa UnAids riconosce che nel mondo il 26% delle strutture sanitarie sono ge­stite da organizzazioni cattoliche. E nell’Uganda spesso citata a modello nella lotta all’Aids (vedi articolo sotto), le organizzazioni cattoliche gestiscono 27 ospedali (un quarto del totale), 220 unità sanitarie di primo livello e 12 scuo­le infermieri, mantenendo – secondo il Journal of Medicine and the Person – «un ruolo decisivo nell’erogazione sia dei servizi di base che di alta specializza­zione tramandando un prezioso ethos professionale e una cultura di servizio». Non basta, perché – come ha spiegato tempo fa all’agenzia Svipop.org il dot­tor Giuliano Rizzardini, che vanta una lunga esperienza in Africa nella lotta al­l’Aids – il punto di forza della Chiesa sta nella «presenza»: «C’è una concezione in Occidente – diceva Rizzardini – per cui, ad esempio, si mandano i farmaci e tutto si risolve. Invece non è così. Le terapie farmacologiche funzionano se sono all’interno di un contesto educa­tivo, che come condizione ha la pre­senza. È per questo che la rete dei mis­sionari coglie successi anche dal punto di vista sanitario».