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Casa Bianca 2016. Migranti, la nuova rotta dall'Africa agli Usa. Con la paura di Trump

Lucia Capuzzi sabato 5 novembre 2016

«Non è fatto per dormirci. Però...». Padre Ernesto Hernández lo ripete più volte, come per scusarsi dei sacchi a pelo, adagiati negli angoli. Il Desayunador Padre Chava è una mensa non un rifugio. Eppure, da settimane, ospita 426 persone. Nella Casa del Migrante, i letti sono perennemente occupati. Ora, però, sono finiti anche i materassi e le coperte piazzati nei corridoi per far fronte al flusso record.

«Ho 50 persone fuori dalla porta. Non ci stanno. Non ci stanno proprio... E anche questa notte resteranno per strada», freme padre Patrick Murphy, missionario scalabriniano e direttore della struttura. Già prima della “valanga migratoria” degli ultimi tempi, i 600 ospiti al mese sono raddoppiati in pianta stabile. Trovare spazio è, dunque, una sfida contro le leggi della fisica. L’arcivescovo, monsignor Francisco Moreno Barrón, ha chiesto alle parrocchie di aprire le porte. Lo stesso hanno fatto molte chiese protestanti. Eppure, fuori, sono ancora in troppi. I bivacchi arrivano fino al centro dove, crudele, si erge il grande arco e la sua inconfondibile scritta: «Bienvenidos a Tijuana».

Strappata al deserto e conficcata nell’estrema punta occidentale de La Linea – i 3.185 chilometri di frontiera in comune con gli Usa –, la città è da sempre crocevia di migranti centroamericani e messicani ansiosi di superare il valico di San Ysidro e sbucare a San Diego, l’emblema del sogno americano con i suoi viali lunghi e orlati di palme. La costruzione del muro – cominciata proprio qui nel 1990 – e la militarizzazione del confine – già in atto nonostante la retorica di Donald Trump –, dall’inizio degli anni Duemila, ha “costretto” il flusso verso punti meno battuti. E Tijuana s’è trasformata nella “città dei deportati”: là i pullman scaricano, ogni giorno, in media, 600 latinos espulsi dagli Stati Uniti. Il via vai procede inesorabile. A questo, però, i centri d’accoglienza di Tijuana e dell’intera regione della Baja California erano preparati.

A coglierli alla sprovvista è stato, invece, un altro fenomeno, in atto dall’estate: l’arrivo in massa di migliaia e migliaia di africani diretti verso gli Usa. Da gennaio a settembre, secondo i dati della Segreteria di governo, oltre 11.900 subsahariani hanno varcato la frontiera sud del Messico, passando da Tapachula, in Chiapas. Le entrate, però, si sono intensificate da agosto, con picchi di 300 al giorno. Dall’inizio di ottobre, ce ne sono state già oltre 2.900. In tutto il 2015, ne erano stati censiti in totale 2.078, nel 2014 appena 785. Qualcosa, dunque, sta mutando – e in fretta – nell’articolazione dell’esodo internazionale. «Abbiamo cominciato ad accorgercene da gennaio.

In una sola settimana hanno bussato alla nostra porta in ventuno. Prima ne vedevamo ventuno in un anno…», racconta ad “Avvenire” Ramón Márquez, direttore della Casa del Migrante “Los 72” di Tenocique, nel Tabasco, una delle porte meridionali del Messico. Perché ora tanti africani sono contagiati dalla febbre del sogno americano? Per rispondere, dobbiamo considerare diversi fattori. In primo luogo, l’aumento delle difficoltà per raggiungere l’Europa. La chiusura della rotta balcanica e i crescenti pericoli per chi tenta di passare da Libia e Marocco spingono tanti a cercare una strada alternativa. L’America appunto. Una meta non più obbligata, come fu per gli antenati, trascinati nel Continente incatenati alle stive delle navi. Per gli africani d’oggi è un El Dorado, distante da miseria, guerre, violenze etniche. Peccato che anche questa “terra di libertà” sia – proprio come l’Europa – una fortezza blindata. E nel tentativo di espugnarla, tanti si trasformino in nuovi schiavi. Stavolta delle mafie. L’altra spinta è il cosiddetto “effetto Trump”. Le boutade aggressive del candidato repubblicano spaventano i migranti: s’è, dunque, diffuso il timore che un’eventuale sua vittoria implicherebbe una stretta alla frontiera. L’obiettivo è, dunque, fare richiesta prima che “il vento cambi” e le porte si chiudano. Il tragitto, in media di 17mila chilometri, è costoso – dai 4 ai 9mila euro in totale – e tutt’altro che agevole. Nel migliore dei casi, dura almeno quattro mesi. Sempre che arrivino.

I migranti partono in aereo per il Brasile dove una rete ben organizzata fornisce documenti falsi con cui proseguire verso Nord, via terra. I trafficanti più organizzati hanno creato addirittura un “pacchetto” per cui gli africani toccavano suolo brasiliano tra febbraio e marzo, in modo da poter essere reclutati – ovviamente in nero –, nei mesi successivi, nei lavori di costruzione delle infrastrutture olimpiche.

Poi, una volta inaugurati i Giochi, potevano ripartire. La “marcia” americana è una corsa ad ostacoli. Specie nell’Istmo. Da quando il Nicaragua, lo scorso anno, ha chiuso la frontiera con il Costa Rica – a causa del flusso record di cubani –, i trafficanti conducono i migranti per la giungla. Spesso li abbandonano là, in mano alle bande criminali. Assalti e stupri sono una costante. Una volta arrivati in Messico, gli africani – a differenza dei centroamericani che attraversano il Paese illegalmente – si presentano volontariamente alla polizia migratoria. Tanto non possono essere rimpatriati, data l’assenza di accordi con le nazioni d’origine. Gli agenti si limitano a dare loro un permesso temporaneo di ventuno giorni, per raggiungere il confine nord. Le compagnie di trasporti più intraprendenti hanno già inventato il “bus Africa”: un diretto da Tapachula a Tijuana che costa 65 euro e ci mette tre giorni. Almeno si risparmiano i 3mila chilometri aggrappati al tetto della «Bestia» che trasporta sulle rotaie il suo carico di merci.

A Tijuana, i subsahariani sono sulla soglia degli Usa. La porta, però, è ben chiusa. La chiave per aprirla è l’asilo. Presentare la domanda, però, non è facile: i funzionari non riescono a fissare più di cento colloqui al giorno. E, in media, tra Tijuana e Mexicali – dove si trova l’altro ufficio preposto – gli arrivi quotidiani sono oltre 300. Anche due altre correnti migratorie si sommano al flusso. Quella dei messicani – in gran parte di Michoacán e Guerrero – profughi dei narcos: in Baja California se ne contano 18mila in attesa di visto. E quella degli haitiani. Da quando, a settembre, Washington ha annunciato che avrebbe sospeso entro il prossimo anno il programma di permessi umanitari post terremoto, è cominciata la “corsa”.

L’uragano Matthew, il mese scorso, ha peggiorato ulteriormente la situazione. «Il risultato è una crisi umanitaria di enormi proporzioni. Al momento nella regione ci sono 4mila persone in attesa di poter presentare richiesta. Altre 40mila, in questi giorni, stanno attraversando l’America centrale dirette verso il confine. Prima della fine dell’anno, solo a Tijuana si supererà la quota dei 60mila arrivi. I rifugi sono al collasso mentre gli aiuti delle autorità procedono a rilento. E l’inverno incalza. L’imbuto, poi, rappresenta un’occasione ghiotta per le mafie. Queste hanno creato un mercato nero di “fichas”, i fogli su cui è fissato l’appuntamento. Per ottenerlo basta pagare», racconta ad “Avvenire” Marta Sánchez Soler, fondatrice del Movimento migrante mesoamericano e nota attivista per i diritti umani».

Chi non ha soldi deve aspettare: ci vogliono due mesi prima di sedersi di fronte al responsabile. Là gli africani, gettati i passaporti falsi, sperano di vedersi riconosciuto lo status di profughi di guerra. Tanti, però, resteranno delusi. E, incastrati, dalla parte “sbagliata” del muro. E del mondo.