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L'AFRICA FERITA. Guerra da «pazzi»

Matteo Fraschini Koffi domenica 20 giugno 2010
Il cellulare del dottor Abdikadir Kalif Ali non smette di squillare. Come direttore dell’unico dipartimento di salute mentale in tutto il Puntland, attivo all’interno dell’ospedale generale della cittadina di Bosaso, il suo è uno dei lavori più difficili in Somalia. «A volte percorrono chilometri sotto il sole, raggiungono la collina più vicina, e appena trovano il segnale mi chiamano – afferma Ali –. Sono i familiari dei miei pazienti che vogliono sapere quando possono venire in ospedale a ricevere i medicinali. Ma senza un maggiore supporto internazionale, sono spesso costretto a farli aspettare per giorni». In questa rovente regione del Corno d’Africa, autoproclamatasi autonoma con l’inizio della guerra civile nel 1991, passare molti giorni senza i farmaci necessari può risultare fatale. Soprattutto nei numerosissimi casi di patologie mentali, in cui a soffrire non è solo il malato, ma chiunque gli sta vicino. La scheda medica che il dottor Ali ha tra le mani parla di un giovane schizofrenico in cura dal 2005, che più volte ha aggredito i suoi familiari, lanciando oggetti contro di loro e sferrando pugni e calci. A questo si aggiungono i frequenti attacchi di epilessia, che per diversi anni lo hanno costretto all’isolamento.«Purtroppo, la sua famiglia lo terrà incatenato in un angolo della casa fino a quando riuscirà a somministrargli i farmaci – spiega il direttore del dipartimento –. In Somalia situazioni del genere sono frequenti. In assenza delle medicine per questo tipo di pazienti, soprattutto nelle zone rurali in cui le malattie psichiatriche sono "rifiutate" o considerate "maledizioni", i familiari spesso si riducono a tenere il congiunto in catene per evitare che faccia del male a se stesso e alle persone che gli stanno intorno». La salute mentale della popolazione è un tema tanto grave quanto poco affrontato a causa dell’interminabile conflitto civile in corso nella Somalia centro-meridionale, le tragiche ripercussioni del quale si riverberano nel resto del Paese. Le agenzie umanitarie internazionali, scarsamente presenti sul campo per via della pericolosità del contesto, considerano Bosaso la meta più "trafficata" di tutto il Corno d’Africa. Un drammatico vortice di sfollati interni, provenienti in gran parte dal Sud del Paese, si mescola a migliaia di rifugiati scappati dalle carestie etiopiche o dal regime eritreo. Inoltre, non è facile distinguere gli altri gruppi originari dell’Ogaden, una vasta regione ufficialmente parte dell’Etiopia, ma occupata dal clan somalo dei darod-ogadeni, dove è in corso una feroce e "silenziosa" guerra per accaparrarsi le risorse naturali presenti nel sottosuolo. Negli anni si è anche formato un gruppo composto dai richiedenti asilo, che comprende persino cittadini originari della Repubblica democratica del Congo, del Sudan e della Mauritania. «A volte scoppiano alcune incomprensioni tra la comunità ospitante e il resto della popolazione – conferma Mohamed Said, vice-direttore dell’ospedale pubblico di Bosaso –. Ma generalmente le relazioni sono buone, perché capiamo il dolore di chi fugge dalla guerra. Molti sfollati hanno visto i familiari uccisi davanti ai loro occhi – continua Said – è per questo che la salute mentale dovrebbe essere uno degli elementi di maggiore attenzione da parte di chi li assiste».Secondo le autorità, l’alta percentuale di disoccupazione è un’altra delle principali cause di patologie psichiatriche che affliggono sia i cittadini del Puntland sia i profughi. La scheda medica di Ahmed, somalo di trent’anni, attesta che il paziente soffre di depressione, schizofrenia e malnutrizione, poiché crede che il cibo abbia strani poteri e lo possa avvelenare. «Non avendo abbastanza farmaci, molti dei nostri pazienti aggravano le loro condizioni mentali masticando il Khat, l’erba allucinogena che permette anche di non sentire i morsi della fame», dice Hawa, operatrice sociale del Gruppo per le relazioni transculturali (Grt), un’organizzazione non governativa italiana che lavora in Somalia dal 1996 e ha aperto nel 2003 il dipartimento di salute mentale a Bosaso. «Inoltre, sono tante le famiglie convinte che tali malattie non possano essere curate e, quindi, si limitano a isolare per anni chi ne è colpito, sperando che prima o poi si calmi».Sebbene non si abbiano stime attendibili riguardo il numero di malati mentali in Somalia, le autorità ritengono che quasi metà della popolazione somala soffra di disturbi psicologici. Dal 2003, i pazienti seguiti dal Grt sono più di 3mila, ma il grosso del progetto che finanziava questo dipartimento è stato forzatamente sospeso nel 2008 in attesa di altri fondi umanitari. «Stiamo cercando l’aiuto delle agenzie internazionali – afferma Mohamed Ahmed, segretario regionale per il ministero della Sanità –. Però sappiamo che la causa di questi problemi sta nel conflitto endemico e nella mancanza di un governo centrale che possa rendere migliore la vita della nostra popolazione». Per i somali che scappano dalla guerra e s’insediano alla periferia di Bosaso, sparsi per ventisei campi profughi (che secondo l’Onu ospitano più di 28mila civili), non resta che costruire dove si può capanne fatte di stracci e cartoni trovati nelle discariche a cielo aperto. Solo nell’ultima settimana, vi sono stati due incendi spontanei provocati da un sole infernale che ha innescato il rogo di più di 500 abitazioni, con la morte di un bambino e decine di ustionati. Quando la Croce Rossa è arrivata per valutare la situazione e registrare le persone che in pochi, terrificanti minuti hanno perso quel poco che possedevano, un litigio ha provocato il ferimento di uno dei soldati governativi che fanno da scorta ai convogli umanitari e al personale straniero. «La gente è stanca, frustrata e arrabbiata», spiega il dottor Ali. «Lo stress che hanno accumulato in questi anni aumenta giorno dopo giorno e il mio dipartimento da solo non può affrontare tutto il lavoro necessario. Abbiamo bisogno di più sostegno, altrimenti vedremo letteralmente "impazzire" l’intera popolazione somala».