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REPORTAGE. Afghanistan, «Diciamo basta all’oscurantismo»

Riccardo Redaelli giovedì 16 maggio 2013
È il caso del bicchiere a metà: qualcuno lo vede mezzo pieno, qualcun altro mezzo vuoto. Ma la considerazione più realistica è forse che il bicchiere ondeggia tanto da rendere impossibile capire quanta acqua vi sia al suo interno. È quanto sta avvenendo oggi in Afghanistan: dopo dodici anni di presenza militare straniera il quadro è tutt’altro che stabilizzato, mentre si avvicina inesorabile la data del ritiro dei contingenti internazionali, da completarsi entro il 2014. Per i pessimisti, è impossibile che la missione a guida Nato di aiuto militare e economico al Paese (Isaf) riesca oggi a sconfiggere i taleban e a garantire la stabilità proprio mentre si appresta ad andarsene.«La Nato non abbandona l’Afghanistan – è la risposta degli alti comandi militari –. Noi continueremo a sostenere le forze di sicurezza afghane (Ansf) e il governo di Kabul, mantenendo anche dopo il 2014 almeno 10-12.000 soldati, oltre ad assicurare il sostegno aereo nelle battaglie contro gli insorti quando richiesto, l’intelligence e le attività di training». Tanto è vero che la parola ritiro (withdrawal) è bandita dal linguaggio Isaf, che preferisce parlare di riposizionamento (redeployment), anche se gli afghani, in tutti gli incontri, lasciano trasparire la preoccupazione che il nostro sia davvero un disimpegno che li lasci soli.E certo non è facile indulgere all’ottimismo, guardando indietro a tutti gli errori militari e politici commessi, alla corruzione dilagante, al fallimento nello sconfiggere i taleban, alle interferenze straniere. Una questione di fiducia?Quanto non viene percepito in Occidente, sostengono tuttavia i vertici Isaf, sono i miglioramenti delle Ansf. In effetti gli ultimi dati sembrano permettere un cauto, prudente ottimismo. Innanzitutto, a dispetto delle fosche previsioni che si erano diffuse, le forze di sicurezza e di polizia afghane tengono meglio il campo, riuscendo a rintuzzare gli attacchi dei taleban, nonostante il progressivo disimpegno delle truppe occidentali dai combattimenti terrestri. In più, si è avuta notizia nei mesi scorsi di reazioni da parte degli abitanti di distretti contro la presenza degli insorti: molti afghani sembrano non voler tornare indietro a prima del 2001, in un Paese senza scuole, telefonini, tv, dispensari per la popolazione femminile.Di qui il cauto ottimismo dei militari Nato: quanto conta è ottenere successi per aumentare la fiducia degli afghani nelle proprie forze di sicurezza. Non a caso, l’ultimo mantra di Isaf – ripetuto in continuazione – è «confidence is the center of gravity»: la fiducia nei propri mezzi è il perno dell’azione. Una fiducia ottenuta a caro prezzo, visto le perdite molto alte – decine di uomini ogni settimana – fra i soldati afghani. Ma di cui sembrano più colpiti i comandi occidentali rispetto a quelli locali: oltre alle differenze culturali, contano anche i decenni di guerra civile ininterrotta che ha tragicamente reso la morte un fattore quotidiano nella vita di questo popolo.Visitare il centro di addestramento delle forze armate afghane, poco fuori Kabul, rivela questo senso di maggior fiducia e di "normalizzazione". L’ultima volta che vi ero stato, quattro anni fa, il training era guidato da un centinaio di addestratori, occidentali, con gli ufficiali afghani relegati in seconda fila. Oggi, vi sono solo cinque consiglieri della Nato che controllano le attività di addestramento gestite completamente dal ministero della Difesa di Kabul. Migliaia di soldati, sottufficiali e ufficiali si esercitano a ritmi serrati, mentre il comandante afghano diffonde ottimismo e dati trionfali. «Ma in realtà – mi dice un addestratore anglosassone – questi soldati vengono mandati sul campo assolutamente impreparati ad affrontare situazioni veramente critiche». E la selezione degli allievi ufficiali avviene principalmente sulla base di due criteri che non rassicurano troppo: il rispetto delle quote fra i diversi gruppi etnici che compongono la popolazione afghana (e che spesso si detestano) e la capacità – anche minima – di leggere e scrivere. Lo sforzo militare, tuttavia, non è decisivo di per sé: è chiaro che l’Afghanistan non potrà mai stabilizzarsi senza un miglioramento della situazione politica. Elezioni e negoziati di paceNel 2014 scadrà l’ultimo mandato del presidente Hamid Karzai e da tempo, a Kabul, si gioca un risiko politico fra i possibili candidati per la ridefinizione delle regole elettorali. Il presidente non è più rieleggibile, ma ciò non esclude sue interferenze per cercare di portare un proprio uomo alla presidenza. L’obiettivo della comunità internazionale è impedire al governo di Kabul di manipolare le prossime elezioni, evitando il disastro vergognoso del 2009: brogli scandalosi e controlli inesistenti. Da parte loro, i vari partiti e potentati afghani si muovono in modo estremamente ambiguo: se vi è una parte della società civile e dei "tecnocrati" che spinge per aumentare la trasparenza delle verifiche e la semplicità delle regole, vi sono anche i vecchi mujaheddin, i capi tribali e altri politici che giocano in modo molto più cinico. Il problema di fondo è come sempre il ruolo dei pashtun, il gruppo etnico più importante, da secoli alla guida dell’Afghanistan, ma indebolito dal fatto che i taleban provengono quasi esclusivamente da questa etnia. Per molti il presidente deve essere un pashtun; ma tanto più forte sarà la guerriglia (che opera principalmente nelle province in cui essi sono la maggioranza) tanto minore la partecipazione di questo gruppo etnico al voto e tanto più deboli i loro candidati. Per questo, sono state avviate trattative con la galassia dei taleban, un’etichetta che racchiude gruppi molto diversi tra loro: dai vecchi ideologizzati, a quelli "per interesse", ossia pashtun in lotta con Kabul per questioni di potere o di soldi, a semplici gruppi criminali.Le trattative fra governo e insorti avviate da tempo a Doha, tuttavia, non sembrano portare alcun risultato, soprattutto – è la visione afghana – per colpa del Pakistan, che controlla molti capi e che sarebbe ostile a ogni ipotesi di accordo che non assicuri un grande potere di interferenza nelle vicende di Kabul al governo di Islamabad. Sembrano dare più frutti i contatti sul terreno degli emissari del presidente Karzai, i quali – non sempre in modo limpido – negoziano armistizi con comandanti locali o con i gruppi di insorti considerati meno legati ai pachistani. Il miglioramento dell’efficienza della Ansf e l’idea dei negoziati sembrano in effetti produrre qualche segno di stanchezza nel composito fronte degli insorti. Secondo alcune stime, l’inizio della tradizionale di primavera di combattimenti mostra una leggera riduzione degli attacchi dei taleban. Anche se, vi è chi – più prosaicamente – sostiene che il decremento sia colpa del tempo cattivo. È certo comunque, che la strategia di eliminazioni mirate dei capi degli insorti (per quanto moralmente molto discutibili) qualche contraccolpo sul loro morale la stia dando. I timori per il dopo L’ottimismo che molti afghani ostentano sul fronte militare sembra diminuire quando si parla di politica e di economia, dato che il ritiro dei contingenti Nato avrà un forte contraccolpo anche sull’economia del Paese. Per questo, insistono, la comunità internazionale deve continuare per il decennio a venire a sostenere l’Afghanistan. Ma non solo economicamente: in tutti gli incontri con militari, politici ed esponenti della società civile (spesso la meno diplomatica verso i nostri errori del passato) si ricevono dettagliati e sterminati elenchi delle forniture che noi occidentali dovremmo considerare quale nostro dovere garantire loro: evidentemente nel Paese non devono aver troppo sentito parlare della crisi economica occidentale. In ogni caso tutti – anche gli esponenti dei partiti islamisti pashtun – sembrano convinti che l’Afghanistan non ritornerà al medioevo dei taleban pre-2001: «Anche se dovessero rientrare nelle nostre città – mi dicono –, troveranno una popolazione che ha capito il valore dell’istruzione, dei contatti e della libertà, e non intende farne a meno». Ma non sarebbe male se, prima del 2014, riuscissimo a far capire agli insorti – e al governo di Islamabad che traffica con loro – che su quelle città non riusciranno mai più a mettere le mani.