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1945-2020. 75 anni dopo Hiroshima, il mondo riaffila le armi nucleari

Francesco Palmas giovedì 6 agosto 2020

La distruzione a Hiroshima dopo il 6 agosto 1945

A 75 anni dalle catastrofi di Hiroshima e Nagasaki abbiamo una certezza: la memoria si sta affievolendo. È duro da accettare. Ma la realtà odierna dice che le armi nucleari hanno nuovamente il vento in poppa. Nei prossimi vent’anni, i nove Paesi detentori di bombe termonucleari spenderanno fra i 1.500 e i 2mila miliardi di dollari per svecchiare gli arsenali. Acquisiranno bombardieri strategici; costruiranno sommergibili lanciamissili di ultima generazione; si doteranno di vettori terrestri di maggiore gittata e lanceranno satelliti spia più precisi. Mai avremmo pensato che si sarebbe arrivati a tanto.

210mila sono state le vittime - solo nell'immediato- dei bombardamenti
di Hiroshima e Nagasaki di 75 anni fa, secondo le principali stime internazionali

C’erano stati sussulti irenici, fatti di decenni di Arms control, di politiche di disarmo, di trattati bilaterali, di un premio Nobel all’Organizzazione per la messa al bando delle armi nucleari e di un trattato per l’interdizione delle armi atomiche. E, invece, da due anni a questa parte stanno venendo giù come castelli di carta tutti i trattati di controllo degli armamenti. L’anno scorso, l’Amministrazione Trump ha silurato l’accordo sulle forze nucleari intermedie, imputandone la responsabilità alla Russia. Al di là dei tecnicismi, è un tramonto che apre la via alla ri-nuclearizzazione missilistica del Continente europeo. Mosca osserva, valuta e reagisce. Stava già forzando la mano.

2.058 sono le esplosioni nucleari che si stima siano avvenute
negli ultimi 75 anni. La maggior parte di queste - 2mila - risale alla Guerra fredda

A giugno ha rotto gli indugi, mettendo in guardia i nemici. Presentando la nuova dottrina nucleare, ha svelato di aver allentato i freni all’impiego delle armi atomiche: ne farebbe ricorso per prima in almeno quattro scenari. Tre si riferiscono ad azioni ostili contro la Russia o i suoi alleati. Pur non attaccato con fuoco atomico, il Cremlino risponderebbe con ordigni nucleari, se la minaccia fosse soverchiante. La logica della dottrina è chiara. Sottintende la volontà di riappropriarsi dell’estero vicino e di difenderlo, se necessario con armi atomiche, contro un’espansione «alleata».

Non a caso, dal 2000 ad oggi, le esercitazioni militari russe includono tutte uno scenario con raid nucleari limitati. La Russia non ha pari al mondo per testate nucleari tattiche, a basso potenziale: ne possiede 1.800, potenti quanto un’Hiroshima, non disciplinate da nessun trattato di disarmo. Bisognerà metterci mano. La Nato (americana) ne ha “solo” 150, distribuite in quattro Paesi europei, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Italia e Turchia.

3.720 sono ancora le testate nucleari dispiegate e pronte all'uso
nei nove Paesi del club atomico. Sono parte di un arsenale da 13.400 ordigni

Se la Russia riarma, gli Stati Uniti non sono da meno. Nel 2018, hanno messo in cantiere un missile da crociera navale a carica nucleare, sabotando l’iniziativa comune con Mosca del settembre 1991. Un altro patto crollato. Washington, dice Trump, vuole avere le mani libere per fronteggiare la Cina, che ha riaperto per prima il dossier dei missili nucleari intermedi, puntati contro le basi americane nel Pacifico. Trump vorrebbe includere Xi Jinping in un negoziato anti-atomico trilaterale con Putin, ma Xi rifiuta. Ha un arsenale che è un infinitesimo di quello russo e americano. Come dargli torto? Sulla carta, la frattura pare insanabile. Nei fatti, rischiamo tutti di rimanere scoperti. A febbraio, scadrà il patto dei patti: il trattato sulle armi nucleari strategiche fra Russia e Stati Uniti, che da sole valgono il 90 per cento delle ogive mondiali. I negoziati per il rinnovo sono a un punto morto. Eppure l’accordo garantisce il pianeta, limitando a 1.550 il numero di armi nucleari schierabili dai due grandi. Washington vorrebbe un trattato a tre con la Cina. Ma sa già la risposta. La politica della massima pressione di Trump non sta producendo nessuno dei risultati sperati. Non ha sortito granché neanche con la Corea del Nord. Mentre ci ipnotizza la danza macabra dell’Iran intorno all’atomo, è proprio in Asia la nuova gara al nucleare.

Il fungo atomico su Hiroshima in una foto scattata pochi minuti dopo l'esplosione - Hiroshima Peace Memorial Museum / Ansa


India, Pakistan, Cina e Corea stanno proliferando. Lo certifica il Sipri nell’ultimo bollettino di giugno. Dehli aveva 130-140 ogive nel 2019. Oggi è balzata a 150. Islamabad è passata da 140-150 a 160. Nel 2018, Pyongyang aveva annunciato una moratoria sulle attività nucleari, promettendo una denuclearizzazione della penisola dopo l’ennesimo riavvicinamento “storico” con Seul. Sappiamo tutti come è andata a finire: l’arsenale di Kim è aumentato nel giro di un anno da 20-30 testate a 40, a dispetto dei buoni uffici di Trump.

Nessuno batte però la Cina quanto a giochi sporchi. Pechino è schizzata da 280 testate nel 2018 a 320 nel 2020. Ha ormai una triade di lancio completa. Sta immettendo in linea un nuovo missile nucleare per sottomarini, il Jl-3, che dovrebbe permetterle di colpire il territorio statunitense dal mar Cinese meridionale, senza correre il rischio che i suoi sottomarini siano scoperti dai sensori acustici americani varcando la prima catena di isole. La questione spiegherebbe la veemenza con cui Pechino brama la quasi interezza del mar Cinese meridionale. Gli americani sono preoccupati. Nell’Amministrazione c’è chi pensa addirittura di riprendere i test nucleari sotterranei, trent’anni dopo l’operazione “Julin” del settembre 1992. Non c’è che dire. Nel 2020, il mondo è più insicuro e vulnerabile che mai.