Europa

Consiglio europeo. I leader europei isolano Orbán: «Quella legge discrimina i gay»

Giovanni Maria Del Re, Bruxelles venerdì 25 giugno 2021

Il premier ungherese Viktor Orbán

Tutti contro Viktor Orbán. È stata indubbiamente pesante per il premier ungherese la prima giornata del Consiglio Europeo. Perché il leader magiaro si è trovato di fronte a una raffica di critiche da parte di vari altri capi di governo per la legge appena approvata dal Parlamento di Budapest che vieta contenuti omosessuali in libri, pubblicità o materiale video che possano esser visti da minorenni. Una legge già condannata due giorni fa come «una vergogna» dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

La giornata si era aperta già minacciosa per Orbán, con la pubblicazione di una lettera firmata da 17 capi di Stato e di governo (Italia, Belgio, Danimarca, Germania, Estonia, Irlanda, Grecia, Spagna, Francia, Cipro, Lettonia, Lussemburgo, Malta, Olanda, Finlandia, Svezia e Austria) e indirizzata a Von der Leyen, al presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e al premier portoghese Antonio Costa (presidente di turno dell’Unione fino al 30 giugno). Una lettera che non nomina l’Ungheria, ma l’allusione è chiara: i diciassette leader ricordano «la minaccia contro i diritti fondamentali e in particolare il principio di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale», affermando che urge «continuare a combattere contro la discriminazione verso la comunità Lgbti».

Il premier magiaro si è difeso. «L’omosessualità non c’entra con questa legge – ha dichiarato –, si parla dei minori e dei loro genitori, tutto qui. L’omosessualità era punita sotto il comunismo e io ho lottato per la libertà e i diritti dei gay».

Parole che non hanno convinto, anzi il tema è andato sempre più montando finendo quasi per dominare il vertice. Tanto da esser introdotto, all’ultimo minuto, nella sessione pomeridiana che doveva esser dedicata solo alla pandemia e alle migrazioni, mentre in un primo tempo se ne doveva parlare durante la cena, più informale. «I valori – ha avvertito Michel – sono al centro del progetto europeo». Una sessione virulenta: il più duro è stato il premier olandese Mark Rutte, ormai l’avversario numero uno di Orbán, che ha attaccato frontalmente: se non ritirerà la legge, «per quanto mi riguarda l’Ungheria non ha più un posto nell’Ue».

Budapest «attivi l’articolo 50», quello per lasciare l’Unione, attacca Rutte. «L’Ungheria – gli ha risposto a brutto muso, a distanza, Judit Varga, ministra della Giustizia di Budapest e fedelissima di Orbán – non vuole uscire dall’Ue, al contrario la vogliamo salvare dagli ipocriti». «I contribuenti svedesi – ha tuonato durante il dibattito anche il premier di Stoccolma Stefan Löfven – non hanno interesse a far arrivare fondi a quelli che non rispettano i nostri valori».

Aspro anche il capo del governo del Lussemburgo, Xavier Bettel, che ci ha messo una nota molto personale (è egli stesso omosessuale, sposato con un altro uomo). «Dirò a Orbán – ha dichiarato – che le leggi che fa votare sono inaccettabili. L’Europa è un progetto di pace, di tolleranza e di diritti, è triste doverlo ricordare». E intanto il premier belga Alexander De Croo si è presentato con una spilla arcobaleno appuntata sulla giacca. Anche i "big" sono scesi apertamente nell’arena. «Considero questa legge – ha detto la cancelliera Angela Merkel già alla vigilia, parlando di fronte al Bundestag – sbagliata e incompatibile con la mia concezione della politica».

«Il rispetto e la tolleranza – ha commentato ieri via Twitter anche il presidente francese Emmanuel Macron – sono al centro del progetto europeo. Dobbiamo continuare a lottare contro le discriminazioni verso la comunità Lgbti».

Dalla sua parte il premier di Budapest, già sotto procedura per varie leggi "liberticide" (sulle Ong, sui media, le università), ha ormai in sostanza solo la Polonia e la Slovenia. Quest’ultima, dettaglio non da poco, dal primo luglio detiene la presidenza di turno Ue. Nei prossimi giorni Bruxelles dovrebbe avviare una procedura d’infrazione nei confronti di Budapest e potrebbe far scattare la clausola che vincola il versamento dei contributi del Fondo di rilancio al rispetto dello Stato di diritto.