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Disuguaglianze. Salvare il merito? Tra giustizia, scienza e politica dibattito aperto

Andrea Lavazza mercoledì 15 giugno 2022

Il cortile dell'università Statale di Milano

Il loro uso fuori contesto non è mai commendevole, ma in alcuni casi la trascrizione di intercettazioni telefoniche ha dato uno spaccato del costume italiano che era opportuno conoscere. Non per colpevolizzare il parlante, bensì per capire il contesto. Dice un ex rettore di ateneo italiano, nelle carte giudiziarie riportate da un quotidiano nazionale in merito alle inchieste sui concorsi truccati: «Alla fine qui siamo tutti parenti. L’università nasce su una base cittadina abbastanza ristretta, una specie di élite culturale della città, perché fino adesso sono sempre quelle famiglie». Per questo, dice un altro accademico, bisogna prima scegliere i vincitori, poi fare i bandi. Come tutti sanno, invece, prima è necessario aprire un concorso a tutti i partecipanti che ne abbiano titolo, quindi si deve selezionare il migliore candidato al posto da occupare. Quest’ultima è la procedura consueta che si basa sul merito. I promossi nei concorsi pilotati salgono su una cattedra che non meritano, mentre ne sono esclusi coloro che a- vrebbero avuto titoli e competenze per ottenerla. Ovvia l’indignazione pubblica per le irregolarità erette a sistema e scontato l’appello a una maggiore meritocrazia per rimettere l’Italia in linea con l’Europa. Riconsiderando meglio la situazione, non certo tutta l’accademia è corrosa dal nepotismo. E di meritocrazia potremmo averne, in realtà, fin troppa. Con il risultato di intossicare le relazioni e distruggere il tessuto comunitario su cui si regge l’intero edificio sociale e valoriale. Ciò non giustifica i docenti che cuciono bandi sartoriali per i propri allievi preferiti (sono, in genere, i professori meno aggiornati sulla propria disciplina) né deve distogliere dal compito urgente di rimuovere privilegi e favoritismi che ancora ostacolano una società aperta ed efficiente.

Il tema è sul tavolo degli studiosi da qualche anno. Purtroppo, fa fatica a emergere nel dibattito culturale più ampio, quello che coinvolge anche i decisori politici. Il libro di Michael Sandel La tirannia del merito, tradotto l’anno scorso da Feltrinelli, ha rotto in parte il ristretto circolo dei filosofi della politica con argomenti contro il merito convincenti e ancorati all’attualità ('Avvenire' ha pubblicato vari interventi sul tema). In sintesi, la tesi è che nel mondo anglosassone la cornice del merito, enfatizzata come mai nella storia, non ha spazzato via l’aristocrazia del denaro (soprattutto per quanto riguarda l’accesso alle più prestigiose scuole e università) creando invece una polarizzazione tra 'vincitori' e 'perdenti'. I primi sono arroganti perché pensano di essersi meritati il successo, i secondi si sentono umiliati perché si convincono di avere meritato il fallimento e spesso reagiscono con il risentimento, tradottosi per esempio nell’elezione di Trump o nella Brexit. Che fare? Abbandonare l’idolatria del merito. Per esempio, sorteggiando chi ammettere negli atenei a numero chiuso. O istituire quote in modo che una percentuale molto alta dei posti vada a ragazzi dei ceti più poveri (come proposto da Markovits). Ma se ho studiato forsennatamente tutti gli anni del liceo per fare bene ai test di ammissione e ora mi vedo escluso perché il meccanismo è una lotteria, non proverò un forte senso di ingiustizia? Muove da questa domanda una acuta (e necessaria per fare avanzare la discussione) replica a Sandel avanzata da Marco Santambrogio, già professore di filosofia del linguaggio in varie università, in Il complotto contro il merito (Laterza, pp. 220). Diremmo che l’autore invita a non buttare il bambino con l’acqua sporca, se il proverbio assai frusto non fosse riduttivo per un libro chiaro e rigoroso, scritto in stile analitico tipico dell’orientamento filosofico di Santambrogio.

Si comincia dai principi del merito che, per inciso, sta anche nella nostra Costituzione all’articolo 34: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Di che cosa stiamo parlando esattamente? Primo: le carriere devono essere aperte ai talenti (i posti di lavoro e le posizioni sociali vanno distribuiti secondo le abilità e le competenze, senza privilegiare nessuno); secondo: deve esservi uguaglianza delle opportunità (coloro che hanno le stesse abilità e competenze devono avere le stesse possibilità indipendentemente da origine e ceto); terzo: posti e posizioni devono essere assegnati a chi li merita. I primi due principi sono alla base del progetto riformista e liberale degli ultimi secoli, volto a superare privilegi per nascita, divisioni in classi chiuse, assenza di diritti e ad assegnare compensazioni per i più svantaggiati. Si tratta di qualcosa che è ormai accettato e che neppure i critici della meritocrazia mettono in discussione. Sono criteri universalistici che hanno posto anche nelle teorie di una società giusta che escluda il merito. Ma Santambrogio – e non solo lui – è impegnato a difendere pure il terzo principio. «La mia principale motivazione sta nella convinzione che il merito e il riconoscimento del merito hanno una tale importanza nella nostra vita che la teo- ria aristotelica della giustizia – giustizia è dare a ciascuno ciò che merita – non può essere sbagliata».

All’apparenza, una società che voglia essere efficiente deve premiare 'i capaci e meritevoli' per ottenere un vantaggio per tutti: meglio essere curati da un bravo medico che da un duca che è anche un cattivo cerusico. Ma il merito è qualcosa che riguarda la giustizia e non solo l’efficienza, sottolinea Santambrogio. Infatti, se vediamo che tra due registi di diverso talento viene premiato con l’Oscar alla carriera quello che ha realizzato film palesemente meno apprezzabili, non siamo preoccupati dell’efficienza dell’industria cinematografica, piuttosto ci prende un moto di ribellione perché sentiamo che si sta commettendo un’ingiustizia. D’altra parte, se il criterio del premio fosse l’avere diretto almeno 10 film che hanno incassato ciascuno più di 100 milioni di dollari e tra i due registi prevalesse così quello meno dotato, ci sarebbe un senso in cui il riconoscimento è meritato, perché il vincitore ha un titolo legittimo a esigere il premio. Due domande sorgono di fronte a queste considerazioni. Com’è accaduto che la teoria della giustizia di Aristotele sia stata per secoli compatibile con una società rigidamente divisa in classi? E perché oggi tanti studiosi rigettano l’idea stessa di merito? Il primo quesito non è esplorato da Santambrogio, ma sembra plausibile ritenere che il principio per cui va dato a ciascuno ciò che si merita permetta una sufficiente vaghezza interpretativa, per cui i nobili potevano provare a difendere i propri privilegi non soltanto con la brutale affermazione che 'è così e non c’è motivo di cambiare'. Infatti, il merito è essenzialmente merito morale, ma anche merito basato su abilità e competenze neutre.

Alla seconda domanda, Santambrogio dedica invece quasi tutto il volume ripercorrendo sia le tesi di Sandel sia quelle di Michael Young, l’autore di L’avvento della meritocrazia (1958), una profetica distopia, opera di un architetto del riformismo laburista britannico: un’élite di professionisti super istruiti crea una nuova rigida stratificazione che suscita disagio e insoddisfazione in quanto frustra le speranze di tutti coloro che restano esclusi dopo averne suscitato le ambizioni, a differenza di quanto accade nelle società tradizionali. Va qui distinto l’aspetto pragmatico – un sistema in linea teorica auspicabile, la meritocrazia, non è ben applicato – e un aspetto di principio – il merito è un criterio di giustizia inaffidabile. Sul primo versante, la discussione è aperta (per esempio, molti sostengono che il comunismo si è dimostrato fallimentare dal punto di pratico). Sul secondo, l’idea di alcuni studiosi è che niente di ciò che crediamo di meritare è davvero frutto di un processo di cui eravamo in pieno controllo. Nasciamo infatti in un certo Paese, in una specifica famiglia, abbiamo alcuni talenti o abilità – dovuti alla genetica o alla scuola che ci è capitato di frequentare –, riusciamo a incontrare o no la persona giusta. Ciò equivale a dire che non siamo davvero liberi, come argomenta in un altro libro appena uscito in Italia Gregg Caruso. Nel suo dialogo con Daniel Dennett (A ognuno quel che si merita, Raffaello Cortina, pp. 250), il filosofo americano sostiene la posizione scettica sul libero arbitrio (fondata con argomenti teorici e risultati di esperimenti) e ne trae conseguenze fortemente anti-meritocratiche. In particolare, cade ogni giustificazione alla pena per i criminali, che andrebbero messi in quarantena come malati contagiosi e non incarcerati, e per ogni tipo di sanzione o premio. Ma, ribatte Santambrogio, se eliminiamo l’incentivo a vedersi riconosciuti i propri meriti, avremo risultati ingiusti oltre che inefficienti.

Alcune linee di riflessione sociale proposte da Santambrogio sono degne di particolare attenzione. La scomposizione del merito, che è relativo e molteplice, per permettere a ciascuno di avere un proprio ambito in cui può segnalarsi socialmente, senza appiattire tutto a una dimensione che inevitabilmente condanna la maggioranza alla mediocrità. E la distinzione fra il meritarsi una posizione e la retribuzione associata, che oltre una certa soglia può non essere meritata, evitando gli eccessi nelle disuguaglianze di reddito e ricchezza. La lettura incrociata dei due volumi sollecita l’elaborazione di una antropologia che sia più scientifica (riconoscere i limiti alla capacità di controllo su di noi e il mondo) pur restando umanistica (la nostra psicologia non può essere sovvertita del tutto). Siamo all’inizio di un’impresa intellettuale e politica che 'merita' molto impegno.