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Finanza sostenibile. Sulla tassonomia degli investimenti la politica batte la scienza

Andrea Di Turi mercoledì 19 maggio 2021

Una foresta di faggi all'interno del Parco Naturale dei Monti Aurunci

C’è chi l’ha paragonato a una soap opera, anche se il tema è terribilmente serio. Parliamo del regolamento sulla tassonomia delle attività economiche ambientalmente sostenibili, cuore del Piano d’azione sulla finanza sostenibile dell’Unione europea. Le cui prime tappe risalgono al settembre 2016, quando la Commissione Ue annunciò di voler promuovere la finanza "green" in contrasto alla crisi climatica.

L’ultima tappa il 21 aprile, quando è stato presentato l’atto delegato che attua il regolamento sulla tassonomia approvato nel 2020. Proprio sull’atto si sono scatenate le critiche di chi non lo considera più science-based, cioè basato sulle evidenze scientifiche come è sempre stato professato, bensì frutto di pressioni politiche. In particolare per quanto riguarda i criteri di sostenibilità che la tassonomia definisce per alcuni settori e attività, come la gestione delle foreste o la produzione di energia da biomasse. Critiche forse anche più incandescenti hanno riguardato i criteri per l’utilizzo di gas e nucleare a fini energetici, ma Bruxelles ha deciso per ora di lasciarli fuori annunciando un’iniziativa legislativa separata. Anche l’agricoltura è rimasta fuori, per allinearla alla discussione sulla nuova Pac (Politica agricola comunitaria).

Quello che già c’è nella tassonomia è comunque stato sufficiente per provocare le dimissioni di alcuni membri del gruppo di esperti (la Platform on sustainable finance) istituito da Bruxelles per collaborare alla tassonomia. Il Club di Roma, fin dal celeberrimo rapporto "I limiti dello sviluppo" (1972) una delle punte più avanzate nel mondo sui temi dello sviluppo sostenibile, ha definito la tassonomia semplicemente non adatta a raggiungere l’obiettivo europeo di ridurre le emissioni di CO2 del 55% entro il 2030.

Sandrine Dixson-Declève, co-Presidente del Club di Roma e membro della Platform, non è fra i dimissionari ma potrebbe diventarlo: «La tassonomia – dice – non riflette l’ambizione dei robusti criteri definiti, in due anni di intenso confronto, dal precedente gruppo di lavoro. Che aveva ricevuto il mandato di assicurare il flusso di capitali verso at- tività green, combattere il greenwashing, puntare all’obiettivo della neutralità climatica. Ora è stata annacquata, resta forte in alcune aree ma non è più science-based. E la colpa è degli Stati membri». L’accusa è rivolta a quella che Dixson-Declève chiama «un’alleanza scellerata, che altrimenti non avremmo forse mai visto», tra Paesi scandinavi, ricchi di foreste che vogliono continuare a sfruttare, e del Centro-Est Europa, che non vogliono rinunciare al gas.

Ma c’è anche una questione di metodo. «La governance e il livello di trasparenza del processo decisionale – afferma Dixson-Declève – . vanno rivisti. Non si può continuare a spendere tempo per avanzare raccomandazioni quando poi le decisioni vengono politicizzate». Fra le organizzazioni che invece hanno ritirato i loro rappresentanti dalla Platform c’è il Wwf. «Nella tassonomia ideale – dice Mariagrazia Midulla, Responsabile Clima e Energia in Wwf Italia – gas e nucleare devono stare fuori. Non vediamo con favore la corsa ai biocombustibili a cui stiamo assistendo, ma su questo abbiamo chiesto una riflessione più approfondita. Mi auguro che la tassonomia rimanga integra perché le politiche per la transizione non devono essere 'sporcate' dal greenwashing. La partita comunque non è finita».

L’addio alla Platform di autorevoli Ong potrebbe infatti avere un impatto sulla discussione che si avvia al Parlamento Ue, che ha alcuni mesi per pronunciarsi sull’atto delegato. In un momento in cui sulle politiche "verdi" gli Usa di Biden mettono la freccia, l’esito dello scontro sulla tassonomia dirà anche della capacità dell’Ue di continuare a fare da guida su questo fronte. «La concorrenza sui modelli positivi è sempre un vantaggio – dice Francesco Bicciato, Segretario generale del Forum per la Finanza Sostenibile e membro della Commissione sulla Finanza sostenibile recentemente istituita dal ministero delle Infrastrutture –. L’Ue sconta un processo negoziale che richiede a volte sforzi titanici, col vantaggio però che l’accordo quando viene ottenuto è di lungo periodo e permette di pianificare. Che ci siano posizioni diverse è comprensibile, ma non è negoziabile un ritorno al vecchio modello di sviluppo. Accanto al processo normativo, serve anche sviluppare quello culturale: bisogna insistere sul fatto che la sostenibilità conviene, che la transizione ecologica equivale a opportunità e posti di lavoro».

Un’ulteriore spinta in tal senso è arrivata il 10 marzo con l’entrata in vigore del regolamento sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (SFDR). Morningstar, leader mondiale nella ricerca e analisi sui prodotti finanziari, ha iniziato a mappare il mercato in base alle previsioni della SFDR. «Cambiamenti di questa portata – dice Sara Silano, Editorial Manager di Morningstar Italia – non si realizzano senza un indirizzo da parte del legislatore. Anche se la norma non è tutto: può mettere al riparo da un greenwashing, come dire, di prima generazione, ma non da quello più sottile che per essere individuato richiede un’analisi più accurata. Anche nell’era in cui la sostenibilità è diventata norma, per gli operatori finanziari c’è sempre spazio per differenziarsi: nei processi, nelle risorse dedicate alla sostenibilità, nelle attività di azionariato attivo». Va poi detto che il mercato, spinto dalle richieste di investitori istituzionali e retail, su questi temi va così veloce che in un certo senso è già oltre la tassonomia. «La tassonomia – sottolinea Silano – finora riguarda solo criteri ambientali. Mentre il mercato già massicciamente integra anche i fattori sociali. Soprattutto in seguito alla pandemia, che ha attirato ancor più l’attenzione sul capitale umano».