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Intervista. «I manager oggi capiscono che serve un capitalismo più umano»

Pietro Saccò mercoledì 2 giugno 2021

Rebecca Henderson è uno dei 25 University Professor di Harvard

Se oggi il manager di una grande azienda non può preparare un piano strategico senza spiegare i suoi progetti per la sostenibilità è anche merito di persone come Rebecca Henderson. Ingegnere meccanico con laurea al Mit di Boston, economista con dottorato ad Harvard, Henderson da decenni ha lavorato per esplorare in che modo il settore privato può adoperarsi per costruire un'economia più sostenibile. Insegna questa visione – descritta nel libro Nel mondo che brucia, pubblicato in Italia da Luiss University Press – ai futuri grandi amministratori delegati che studiano ad Harvard.

L'idea di fondo del suo libro è che la storia del capitalismo che ha nella massimizzazione del profitto la sua unica priorità è ormai alla fine. A che punto siamo in questa transizione verso un capitalismo più umano?

Su questo fronte abbiamo una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che abbiamo iniziato a parlare di come potrebbe essere un capitalismo più umano, c'è una discussione sempre più vivace sul fatto che una qualche forma di "capitalismo dei portatori di interesse" possa essere una buona idea e, di conseguenza, su come sarebbe in pratica. L'idea che dovremmo misurare qualcosa di più dei semplici risultati finanziari – o che le cosiddette "metriche ESG" potrebbero essere importanti – è passata dalla periferia al mainstream. La notizia cattiva è che abbiamo ancora molta strada da fare: l'infrastruttura del nostro sistema – le procedure quotidiane, i presupposti sul ruolo delle imprese – riflettono ancora il vecchio modello del "profitto ad ogni costo".


«Gli uomini d'affari erano abituati a guardarmi
con scetticismo quando parlavo della necessità
di rafforzare le nostre istituzioni. Ora mi chiedono
che cosa ho in mente di preciso».

La pandemia sta accelerando questo passaggio?
La pandemia ha creato enormi sofferenze umane, ma credo che possa davvero aiutare ad accelerare il passaggio a un nuovo modello di capitalismo. Ha reso molto più concreti problemi astratti come "disuguaglianza" e "razzismo strutturale". Abbiamo imparato che le cose possono andare, all'improvviso, terribilmente male e, di conseguenza, il mondo sembra molto più fragile. È diventato molto più facile vedere che le aziende hanno vere responsabilità nei confronti delle persone e delle comunità. Inoltre l'idea che il libero mercato possa sopravvivere senza essere governato oggi appare ridicola. Qui negli Stati Uniti, i leader delle aziende si sono espressi a sostegno della democrazia e dell'importanza di un trasferimento pacifico del potere in modi impensabili solo un anno fa. Gli uomini d'affari erano abituati a guardarmi con scetticismo quando parlavo della necessità di rafforzare le nostre istituzioni. Ora mi chiedono che cosa ho in mente di preciso.

L'impressione è che spesso soltanto le aziende più ricche e redditizie possano permettersi di non mettere più i profitti in cima alle priorità.

Rendere i profitti un mezzo per un fine piuttosto che un fine in può sembrare controintuitivo, ma oggi c'è un crescente corpo di ricerca, e tanti esempi concreti, che suggeriscono come questo approccio può migliorare la produttività e l'innovazione, spingendo sia i profitti che la crescita. Porsi domande più ampie – come "che cosa fa l'azienda?" o "come può aiutare proficuamente i problemi pubblici?" – allarga la visione strategica dell'organizzazione, portando spesso a ragionare su nuovi modelli di business che combinano il fare una differenza con il successo finanziario. Impegnarsi davvero nell'idea che l'azienda abbia uno scopo che va oltre il fare i soldi può aumentare i livelli di motivazione dei dipendenti.


«Sono rimasta colpita dalla frequenza con cui ho scoperto
che i leader aziendali che guidano il cambiamento
spesso hanno tratto da profonde convinzioni
spirituali e di fede il coraggio di assumersi questi rischi».

Nel suo approccio al capitalismo sembra importante l'idea buddhista del ruolo degli esseri umani nel mondo. Quanto contano gli aspetti spirituali e religiosi in questo cambiamento dell'economia?

C'è una forte motivazione economica per cambiare il modo in cui attuiamo il capitalismo. Sarà difficile fare soldi in un mondo in cui molte delle grandi città costiere sono sott'acqua, centinaia di milioni di persone sono costrette a migrare perché i raccolti vanno male e molti Paesi sono nella morsa di un rabbioso populismo. In molti settori c'è anche un forte motivo economico per il cambiamento a livello aziendale. Ma il cambiamento è sempre rischioso e difficile, in particolare quando gli investitori sono concentrati sul breve termine. Sono rimasta colpita dalla frequenza con cui ho scoperto che i leader aziendali che guidano il cambiamento spesso hanno tratto da profonde convinzioni spirituali e di fede il coraggio di assumersi questi rischi. Questo tipo
di spiritualità può essere un potente catalizzatore di cambiamento.

L'impegno dichiarato sulla sostenibilità comporta sempre il rischio del "greenwashing": dire bene e poi fare male. Servono più regole?

Il rischio del greenwashing c'è sempre. Ci sono due soluzioni. La prima, la più importante, è il movimento globale per spingere i governi a riscrivere le regole. La seconda è il ricablaggio dei mercati dei capitali. I maggiori investitori si stanno convincendo che enormi rischi sistemici come il cambiamento climatico presentino rischi potenzialmente catastrofici per la stabilità dell'intero sistema finanziario, e questo sta dando loro un forte interesse ad analizzare più informazioni non finanziarie rilevanti, verificabili e replicabili. Queste metriche sono chiaramente nella fase preliminare e gli investitori stanno cercando di capirle, quando saranno consolidate non saranno solo i governi, ma anche i consumatori, i dipendenti e gli investitori a costringere le aziende a fare "la cosa giusta".