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Intervista. «Big Tech non vuole nuovi rivali: per questo spegne l’innovazione»

Daniele Zappalà lunedì 15 maggio 2023

«Le nuove tecnologie portano grandi benefici alla società, ma stanno pure favorendo situazioni monopolistiche pericolose per l’economia, sia in termini di competizione, che di salari per i lavoratori, contribuendo così alle disuguaglianze sociali. Questa situazione si protrarrà e potrebbe aggravarsi, se non si interviene con regolamentazioni politiche». A parlare è l’economista Jan Eeckhout, autore del provocatorio Il Paradosso del profitto. Come un ristretto gruppo di aziende minaccia il futuro del lavoro, appena pubblicato in Italia da Franco Angeli e già al centro del dibattito internazionale. Eeckhout, belga, è professore in particolare all’Università Pompeu-Fabra di Barcellona, dopo aver insegnato a lungo pure negli Stati Uniti. A giugno, sarà ospite del Festival internazionale dell’Economia a Torino.

Lei evidenzia l’odierna rarefazione delle startup, le nuove imprese tecnologiche, rispetto al passato. Una tendenza molto sorprendente e poco nota…

Eppure, il fenomeno attraversa le frontiere. È dunque fuorviante parlare ormai d’epoca d’oro delle startup. Certo, alcune ex startup tecnologiche soprattutto americane, create due, tre o quattro decenni fa hanno fatto fortuna, fino a dominare i nuovi mercati. Ma da allora, la storia è molto cambiata, perché persino negli Stati Uniti siamo passati dal 14% all’8% di nuove imprese innovative. E questo ha pesanti implicazioni negative per l’economia.

Ma non stiamo vivendo una rivoluzione tecnologica?

C’è innovazione, certo. Ma quest’innovazione è ormai controllata, orientata e non di rado frenata soprattutto da una cerchia ristretta di imprese dominanti con un potere di mercato senza precedenti. In tal modo, si finisce per mettere la museruola allo stesso potenziale d’innovazione di tanti mercati. Queste imprese sono preoccupate prima di tutto di conservare la loro posizione dominante, creando barriere d’ingresso ai concorrenti, comprese le startup. Ciò ha ripercussioni generali, in primis per i lavoratori.

Anche in termini di livello dei salari?

Sì, perché la fetta del prodotto interno lordo destinata ai salari continua a calare, proprio mentre cresce la porzione dei profitti dei gruppi dominanti. È l’altra pesante conseguenza dello strapotere di mercato di pochi. Due meccanismi sono all’opera. Da una parte, le imprese dominanti possono permettersi di vendere prodotti e servizi a prezzi di gran lunga più alti dei costi. I clienti, così, pagano troppo e ciò contrae la stessa produzione potenziale, con un minore fabbisogno di lavoratori. Al contempo, un’impresa che è dominante può permettersi di contenere i salari per mantenere alti i profitti.

Ciò rischia d’impoverire una buona parte della popolazione?

In effetti, per via di queste posizioni dominanti, si soffoca un potenziale produttivo e di crescita nell’ordine dell’8%. Soprattutto, questa perdita generale è distribuita in modo estremamente squilibrato, a scapito di chi lavora e non detiene azioni.

I big tecnologici e altri gruppi dominanti, insomma, oltre che dei pionieri, sono vieppiù pure dei castelli protetti da un fossato…

Come nei film, nelle imprese tecnologiche dominanti, c’è al contempo un eroe e un cattivo. Queste tecnologie hanno un immenso impatto sulle nostre vite, con ripercussioni spesso positive, come sappiamo bene. Ma la parte cattiva è che tali gruppi usano un primato tecnologico per costruire fossati e impedire l’arrivo di concorrenti. Ciò impedisce alle nuove tecnologie di avere un effetto molto più positivo per l’economia e il mercato del lavoro e rappresenta un grosso problema. L’obiettivo, infatti, dovrebbe essere creare più benessere e più ricchezza condivisa attraverso l’innovazione.

In certi settori, come la telefonia mobile, l’Europa ha trovato soluzioni interessanti…

Uno dei modi più interessanti per favorire la libera concorrenza nella nuova economia è l’interoperabilità delle reti e infrastrutture tecnologiche. Se pochi attori possiedono ad esempio le infrastrutture, come i satelliti e i ripetitori che richiedono investimenti colossali, una regolamentazione, come avviene nell’Unione Europea, può obbligare i detentori delle infrastrutture a venderne l’uso pure ad altre aziende. In tal modo, ad esempio, degli operatori italiani di telefonia possono ad esempio accedere in teoria ai mercati francese o tedesco. Si deve facilitare l’accesso degli altri per evitare che il detentore della rete diventi un monopolista. Negli Stati Uniti, non è così e la differenza si vede nel prezzo degli abbonamenti telefonici, spesso più elevato che in Europa. I colossi AT&T e Verizon si battono contro i tentativi di regolamentazione.

Certi economisti, come Joseph Stiglitz, additano pure l’eccessiva avidità dell’azionariato. È un fattore chiave?

Si tratta di un fattore problematico per ogni sistema economico, certo. Ma anche eliminando tale fattore, resterebbe comunque il problema di un’innovazione non efficiente senza competizione. Solo con una competizione reale, potremo trarre il meglio dall’innovazione. Anche se lo si ammette raramente, ogni imprenditore sogna di divenire monopolista nel proprio settore, come ben sapeva già Adam Smith nel Settecento. Per questo, occorre regolamentare. Altrimenti, non c’è libero mercato.

Da tempo, c’è chi sostiene che certi colossi dominanti dovrebbero essere “smembrati’”, cosa ne pensa?

In casi estremi, il sistema economico può trarne benefici, è vero. Pensiamo alle acquisizioni di WhatsApp e Instagram da parte di Facebook. È stato davvero un errore autorizzarle, a mio parere. Ma in generale, non è necessariamente una buona cosa spezzettare i grandi gruppi, anche perché creare e gestire delle reti richiede investimenti colossali. Bisogna invece favorire l’interoperabilità. Prendiamo l’esempio di base delle autostrade, evidentemente accessibili ai modelli delle varie case automobilistiche fra loro concorrenti. Lo stesso dovrebbe avvenire per la nuova economia e nei numerosi altri settori con tendenze monopolistiche, compresa la grande distribuzione.