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Ambiente. In Sudamerica un'altra Amazzonia «divorata» dalla soia transgenica

Lucia Capuzzi mercoledì 9 novembre 2022

Non solo l’Amazzonia. Anche il Gran Chaco americano scompare, divorato pezzo dopo pezzo dal mondo, Italia inclusa. Il secondo sistema forestale dell’America Latina – che si estende tra Argentina, Paraguay, Brasile e Bolivia – ha perso almeno quattordici milioni di ettari dal 1996: in pratica l’equivalente della superficie dell’Uruguay. Un record nell’ultimo secolo. Quell’anno, nelle province settentrionali della Repubblica del Plata ¬– dove si concentra il 60 per cento del bosco – è stata introdotta la soia transgenica, brevettata e commercializzata da Monsanto. Da allora, le coltivazioni del cereale sono cresciute a dismisura, a spese della foresta. Il risultato si vede a occhio nudo: chiazze di selva resistono circondate da una distesa di terra brulla. Giganteschi campi sabbiosi si estendono fino all’orizzonte, avvolgendo in un abbraccio letale la vegetazione superstite. Nemmeno la legge di tutela delle aree boschive, emanata dal governo di Buenos Aires nel 2008, è riuscita a frenare la devastazione, a causa di connivenza e inerzia istituzionali. Uno studio del Global environmental change ha dimostrato che tra il 2011 e il 2020, il disboscamento nelle cosiddette zone protette era maggiore che in quelle consentite.

In queste condizioni, la sopravvivenza per le 3.400 specie di piante e i novecento differenti tipi di animali del bacino del fiume Paraná si fa sempre più difficile. Il giaguaro, l’armadillo carreta e il chilimero pecari – una razza di cinghiale – sono praticamente quasi estinti. La crisi ambientale è l’altra faccia di quella sociale. L’espansione delle coltivazioni intensive non ha prodotto sviluppo sul territorio. I quattro milioni di abitanti della regione, di cui il 10 per cento sono indigeni, sono tra i poveri dell’Argentina. La gran parte va avanti grazie all’agricoltura familiare. Quest’ultima, però, diventa ogni giorno più difficile a causa della siccità, effetto della deforestazione. Tantissimi sono costretti a vendere ai latifondisti – gli unici ad avere moderni impianti di irrigazione – e a migrare nella baraccopoli delle città. Chi si ostina a restare, denuncia minacce e violenze. La fame di terra da parte dei grandi proprietari è vorace. In gioco c’è il grande business della soia da esportare sul mercato internazionale. L’Argentina è il primo venditore globale della farina ricavata dal cereale, al ritmo di oltre 200mila tonnellate al giorno. Questa rappresenta il 30 per cento del totale delle proprie vendite all’estero. Milioni di tonnellate ogni anno vengono imbarcate dal porto di Rosario con direzione Cina, India e Europa. Il Vecchio Continente, dunque, è, suo malgrado, uno dei principali motori globali di deforestazione. A rivelarlo è l’ultimo studio delle Ong argentine Periodistas x el planeta e Somos monte, dell’italiana Fair Watch e dell’organizzazione internazionale Madre Brava.

Attraverso una minuziosa analisi dei dati e delle rotte commerciali, il rapporto ricostruisce la filiera «dell’oro verde del Plata»: la strada tracciata conduce dritto ai piatti degli italiani. Il nostro Paese è il sesto acquirente mondiale e il terzo europeo di farina di soia, ingrediente base dei mangimi per animali da allevamento, per un totale di 1,2 milioni di tonnellate all’anno. A venderla sono tre grandi aziende – la cinese Cofco, l’argentina Aceitera general e la statunitense Bunge –, non prima di averla mescolata con altra proveniente dalla Pampa, la fertile pianura agricola. Non è difficile. I trasportatori devono registrare ogni movimento all’autorità fiscale che prevede un’imposta del 33 per cento. Il documento di accompagnamento, chiamato “Carte de porte electrónica automotor”, è di tipo confidenziale. Oltre al governo, i soli a conoscerla sono le aziende che aggregano, fanno da mediatrici e esportano la materia prima. La filiera, dunque, della soia si perde nel tragitto dai campi ai centro di stoccaggio, situati nella zona Rosario-San Lorenzo, lungo una striscia di settanta chilometri che costeggiano il Paraná. Quando arriva in Italia, principalmente dallo scalo di Ravenna, ormai è impossibile conoscere la provenienza esatta.

I consumatori trovano sulle etichette dei mangimi la generica indicazione «Sud America». Ora, però, le cose potrebbero cambiare. Il 17 novembre 2021, la Commissione Europea ha pubblicato una proposta di regolamento per garantire l’origine delle importazioni. L’obiettivo è «promuovere il consumo di prodotti a “deforestazione zero”». Il 13 settembre scorso, il Parlamento di Strasburgo ha dato via libera alla misura con 453 voti favorevoli, 57 contrari e 123 astenuti. Una buona notizia. Certo, società civile e ambientalisti chiedono di indurirlo ulteriormente proibendo l’immissione nel mercato unico di alimenti coltivate in aree deforestate al 2015 (attualmente è al 2020). E di specificare meglio la definizione di foresta. La normativa Ue potrebbe essere la più stringente nel suo genere: richiede alle imprese che commerciano materie prime destinate al Vecchio Continente di dimostrarne la produzione “sostenibile”. L’iter di approvazione, tuttavia, non è ancora concluso. Nel frattempo, il Gran Chaco continua ad essere divorato.