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Frontiere sociali. Capitale biologico: la disuguaglianza che fa ammalare

Andrea Lavazza giovedì 6 aprile 2023

A Torino, è un dato non inedito, si riscontra un’incidenza del diabete doppia nella periferia nord rispetto ai quartieri ai piedi della collina. Non si tratta dell’effetto della collocazione geografica degli abitanti, ma delle differenti condizioni socio-economiche che caratterizzano le due aree. Che la ricchezza e il reddito influenzino lo stato di salute degli individui è una certezza che però non aiuta a comprendere le dinamiche sottostanti né a intervenire in modo efficace. Ovviamente, una strategia radicale e risolutiva sarebbe quella di introdurre misure forzose per accrescere il più possibile l’uguaglianza. Ma ciò assomiglia più a un’utopia che a una politica pubblica credibile. E non è il tema di chi si occupa di fare interagire scienze biomediche e scienze sociali per raggiungere obiettivi ambiziosi eppure realistici.

È allora utile considerare le più recenti acquisizioni della ricerca lette attraverso la lente del condivisibile obiettivo di migliorare la situazione sanitaria delle persone più svantaggiate. Un’eccellente introduzione al tema è fornita dal divulgatore Luca Carra e dall’autorevole epidemiologo Paolo Vineis in un recente e agile volume dal titolo particolarmente suggestivo: Il capitale biologico. Le conseguenze sulla salute delle diseguaglianze sociali (Codice Edizioni). Un nuovo filone di studi mostra l’esistenza di complesse interrelazioni tra diversi tipi di cause e diversi livelli di analisi quando vogliamo cercare di capire come siano distribuiti benessere e malattia.

Come si diceva, le persone benestanti in media godono di migliore salute nel corso della vita. Si potrebbe presumere che ciò sia dovuto all’accesso a cure migliori e più tempestive. Sarebbe tuttavia una spiegazione altamente incompleta e forse fuorviante. Per condizioni o patologie progressive e invalidanti, i cui effetti più gravi si manifestano tardivamente, come l’obesità o il diabete, le terapie sono spesso insufficienti. Il segreto è evitarle fin dall’inizio. E non è la ricchezza in sé che lo permette. Anzi, sappiamo che in passato la gotta e altri disturbi simili erano tipici di chi poteva permettersi di mangiare sempre e tanto, mentre i poveri soffrivano di denutrizione e cattiva alimentazione. Oggi, in molti Paesi – e in tutti quelli occidentali – gli effetti deleteri del sovrappeso e dei cibi ultraprocessati e ipercalorici (snack, bibite gassate) colpiscono soprattutto i ceti meno privilegiati. Che sia l’istruzione, l’accesso alla quale fino ai livelli superiori è facilitato dalla situazione economica familiare, a favorire abitudini più sane? In questo caso, la diagnosi è corretta. Gli anni di studio sono correlati con una ridotta morbilità. Sono quindi i comportamenti che fanno la differenza? Sì e no, andrebbe detto. E la risposta è sia descrittiva sia prescrittiva. Sul piano scientifico stiamo imparando che sono soprattutto i fattori ambientali che stanno in cima alla catena causale (vedremo subito come). Sul piano etico, imputare le condizioni di salute alle cattive condotte dei singoli vuol dire colpevolizzare immotivatamente chi soffre per una malattia e dare un alibi a chi potrebbe intervenite per rimuovere gli ostacoli a un miglioramento della situazione e non lo fa.

È provato che vi sono più bambini obesi nei quartieri dove mancano spazi verdi per l’attività fisica e altre opportunità di fare sport rispetto ai quartieri ricchi di giardini e di strutture organizzate. Inoltre, la famiglia e il contesto sociale deprivato hanno una fortissima influenza sulle abitudini che si formano nei giovani, delle quali pertanto essi non sono pienamente responsabili. Ma si può cambiare, obietterà qualcuno. Certo, se si ha la fortuna di ricevere gli stimoli giusti. Quando il proprio percorso di vita è segnato da eventi avversi nelle prime fasi dell’infanzia e gli sbocchi lavorativi sono limitati, sarà molto difficile rettificare comportamenti poco salutari (come il fumo o le dipendenze da sostanze). Si entrerà, al contrario, in un circolo vizioso di cui stiamo cominciando oggi a capire le basi biologiche.

Chi sperimenta maltrattamenti o mancato accudimento, tensioni fra genitori o abbandono vede condizionato il proprio sviluppo fisico e mentale e aumentare il rischio di patologie nel corso dell’esistenza. Meccanismi epigenetici regolano questo passaggio dalla sofferenza che diremmo psicologica al livello fisiologico, attraverso una modulazione dell’attività dei geni ad opera di influenze esterne. Il concetto vago di malattia psicosomatica lascia il posto a precise spiegazioni di come disuguaglianze sociali e condizioni di vita agiscano sull’organismo. Studi longitudinali durati decine di anni in Gran Bretagna sugli impiegati pubblici hanno permesso di appurare che muoiono prima i fattorini, poi le segretarie, quindi i quadri intermedi, seguiti dai dirigenti e, infine, i top manager. Non vengono colpiti da infarto coloro che sono sotto stress tante ore perché chiamati a difficili decisioni, bensì chi ha poco controllo sulla propria attività e deve fare fronte a una intensa domanda di lavoro.

La gerarchia incide sulla salute non (solo) per via dello stipendio, ma per lo status sociale, la stima dei colleghi e dei conoscenti, le ricompense simboliche, la possibilità di avanzamenti di carriera. I meccanismi per cui questi aspetti “passano sotto pelle” e provocano malattie circolatorie, mal di schiena e tumori cominciano a essere svelati e darci, di conseguenza, strumenti utili per agire. Si parla – spiegano Vineis e Carra – di “incorporazione” come fenomeno generale per cui l’esperienza della disuguaglianza produce un danno nel funzionamento dell’organismo. Ciò avviene attraverso la programmazione biologica – il meccanismo per cui uno stimolo in fase critica dello sviluppo può indurre un cambiamento permanente nella fisiologia – e il carico allostatico – l’accumulo dello stress che può superare la capacità dell’individuo di adattarsi al mutamento delle condizioni ambientali (sovraccarico allostatico). Di qui misure come l’orologio epigenetico, che valuta l’accelerazione dell’età nelle classi più svantaggiate, e la traiettoria di vita, che segnala l’accumulo di fattori dannosi cui si è esposti e che portano a diversi percorsi individuali di salute. Indicatori utilissimi a individuare strumenti di contrasto e di sostegno.

Qualcuno si potrebbe chiedere quale ruolo, se ne hanno uno, giocano i fattori genetici. Non è forse vero che la longevità è legata anche alle varianti del Dna che caratterizzano ciascuno? Carra e Vineis non trattano il tema dicendo di passaggio che i fattori sociali si sono dimostrati più rilevanti. Viene in soccorso il volume di Kathryn Paige Harden, La lotteria dei geni. Come il Dna influenza la nostra vita e la società (Utet). Il focus della studiosa americana, nel suo ampio studio, non è tanto l’aspetto medico quanto quello delle capacità cognitive. C’è una differenza tra persone nei loro successi scolastici dovuta anche all’ereditarietà, e ciò si traduce in differenze nei titoli di studio conseguiti che a loro volta, soprattutto negli Usa, hanno un enorme peso nei percorsi esistenziali.

Il rischio è rassegnarsi alle disuguaglianze innate (e al razzismo sistemico come accade ancora in America). Ma l’autrice propone strategie per mitigare le disparità ed evitare che la genetica diventi una giustificazione ideologica per non investire in programmi statali a favore dei più svantaggiati. In conclusione, il concetto di capitale biologico dovrebbe diventare uno dei punti di riferimento per i decisori pubblici preoccupati di ridurre le disuguaglianze di salute grazie alle nuove conoscenze e offerte dalle scienze biomediche e sociali. Non bisogna stigmatizzare gli individui per i loro comportamenti; si deve comprendere che nessuno può sfuggire alla propria dotazione genetica e non tanti possono scegliere il proprio ambiente.

Servono dunque interventi universalistici proporzionati, orientati a considerare le diverse determinanti della salute nel corso della vita, come nell’introduzione al libro di Carra e Vineis auspica l’epidemiologo Giuseppe Costa, uno dei pionieri di questi studi in Italia (si veda anche questa sua sintesi https://tinyurl.com/4n4wftmt).