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LA TRANSIZIONE DELL'INDUSTRIA. Dalle tonnare al McDonald's: "scatti" di cibo

Giuseppe Matarazzo mercoledì 3 novembre 2021

Ando Gilardi. La monda delle noci, Qualiano 1954

Ci sono i numeri, aridi e impietosi, assoluti e relativi, a «fotografare» – come si usa spesso dire – l’andamento di economia, produttività, inflazione, lavoro, sviluppo. Eppure c’è un’altra fotografia che può raccontare quello che i numeri rappresentano nella realtà. Una fotografia che parla con gli occhi. Che non usa parole e cifre, ma uno specchio – dotato di memoria – e un rullino (analogico o digitale che sia). Immagini che aiutano a saper guardare oltre e dietro le cifre: persone, attività, processi. Storie personali e collettive: di territori che vivono o muoiono; di produzioni e aziende che cambiano nel tempo; dell’uniformante globalità e delle tipicità che resistono. È con questo particolare canale narrativo che si misura Foto/ Industria, la Biennale della dedicata alla fotografia dell’industria e del lavoro che fino al 28 novembre animerà Bologna con undici mostre di grandissimi fotografi di ieri e di oggi in dieci luoghi della città.

Foto di attualità e della memoria. Per raccontare quello che eravamo e quello che siamo. Attorno a un tema, in questa quinta edizione, assai suggestivo: il Food. Che non è solo cibo, ma anche geografia e storia, politica ed economia, biologia e tecnologia. Il bisogno primario del cibo e la sua produzione, in un racconto di epoche e civiltà che fa i conti con la contemporaneità. Così di scatto in scatto, accanto a immagini d’altri tempi scorrono anche le urgenze di questo momento: la questione demografica, il cambiamento climatico e la sostenibilità. «Il cibo è un fondamentale indicatore per analizzare e comprendere intere civiltà – scrive il direttore artistico della Biennale, Francesco Zanot nel testo introduttivo del catalogo-ricettario di undici visioni sull’industria alimentare di ieri e di oggi prodotto dalla Fondazione Mast –. Le modalità attraverso cui gli alimenti vengono prodotti, distribuiti, venduti, acquistati e consumati sono in costante cambiamento e racchiudono pertanto alcuni caratteri distintivi di un’epoca, un periodo storico o un ambito culturale e sociale... Il cibo è linguaggio. Come la fotografia». Il viaggio comincia dai reportage degli anni Cinquanta di Ando Gilardi sui lavoratori della terra e la sindacalizzazione dei braccianti agricoli, come le mondine delle noci nell’entroterra napoletano, ma anche il venditore di angurie e il pasticciere in piazza a Roma, e poi le iconografie legate a tanti prodotti della tavola, pensiamo alle coloratissime e curiose veline delle arance in Sicilia, o ai santini del cibo (da Sant’Antonio a San Rocco). Nelle immagini di Herbert List (1951) va in scena l’epica produzione del tonno a Favignana, dalla mattanza all’inscatolamento: nello stabilimento dei Florio, senza i Florio, che avevano ceduto da tempo l’attività, schiacciati dai debiti. Archeologia industriale oggi, a differenza di altre visioni di più stringente attualità.

Come la globalizzante 'M' di McDonald’s che il giapponese Takashi Homma insegue, tra il 2000 e il 2010, in ogni angolo del mondo: a qualsiasi latitudine longitudine, c’è un’insegna del colosso americano a guidarci, da Los Angeles a Helsinki, dalle Hawaii a Milano, fino alle vette del Monte Bianco. «Nonostante la distanza – nota Zanot –, i negozi appaiono simili tra loro. Simili, ma non uguali. Come a rappresentare permanenza e cambiamento. Non-luoghi per eccellenza questi spazi offrono una duplice esperienza, che passa inevitabilmente anche attraverso la standardizzazione del cibo offerto: c’è il conforto della riconoscibilità, ma anche il disagio che viene dalla sensazione di spostarsi per restare sempre fermi nello stesso posto». Il viaggio nel mondo culturale e industriale del food prosegue con le nature morte di Jan Groover, le visioni tecnologiche con Google Earth di Mishka Henner, lo sfruttamento dei territori per gli allevamenti intensivi denunciato da Henk Wildschut, le condizioni del fiume Sesia di Maurizio Montagna, le fotografie oggettive di Hans Finsler' con la serie del 1928 su commissione dell’azienda dolciaria Most, San Giorgio in Poggiale, e gli spezzoni di vita in tutto il mondo del francese Bernard Plossu. E se Vivien Sansour con il progetto “Palestine heirloom seed library”, si è impegnata nella salvaguardia delle antiche varietà di semi, la raccolta delle storie e la protezione della biodiversità («Un atto di resistenza, che combina ecologia e politica»), Lorenzo Vitturi ci porta a Lagos, in Nigeria, nel mercato di Balogun, uno dei più grandi del mondo, lungo due chilometri, con migliaia di bancarelle e dove si può trovare di tutto, purtroppo sempre più made in Cina. Il motto-appello di Vitturi è «Money must be made». I soldi devono essere fatti. La sfida è sul come. Basta una foto, a volte, per capirlo. Senza parole. Senza numeri. Un’economia che si fotografa con gli occhi. E uno specchio, dotato di memoria, per ricordarci sempre chi siamo e da dove veniamo.