EconomiaCivile

Finanza di emergenza. Crisi climatica e "bombe" fossili

Andrea Di Turi mercoledì 12 ottobre 2022

Inquinamento atmosferico a Milano

Tre miliardi e mezzo di tonnellate di gas serra si riverserebbero nell’atmosfera se le riserve mondiali di carbone, gas fossile e petrolio venissero sfruttate, prodotte, bruciate. Una quantità di emissioni astronomica, superiore addirittura a quelle generate dalla rivoluzione industriale in poi. Soprattutto, una quantità sette volte superiore a quella (il cosiddetto «carbon budget») che ancora abbiamo a disposizione, per provare a centrare l’obiettivo più sfidante dell’Accordo di Parigi: contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5° gradi rispetto all’era pre-industriale, per evitare gli impatti più catastrofici della crisi climatica. Il dato, apocalittico, proviene dal Global Registry presentato nei giorni scorsi da Carbon Tracker e Global Energy Monitor, il primo database globale pubblico, indipendente e trasparente mai realizzato – e anche questo la dice lunga – su riserve e produzione di fonti fossili: «armi di distruzione di massa della nostra era», come vengono esplicitamente chiamate dall’iniziativa per un Trattato di Non-Proliferazione delle fonti fossili (Fossil fuel Treaty) che, fin dal suo lancio un paio d’anni fa, aveva indicato proprio nella realizzazione del Global Registry una tappa fondamentale. Perché il database toglie qualsiasi alibi: non si potrà più dire che i dati non sono disponibili per prendere le decisioni che s’impongono. I dati ora ci sono, Paese per Paese, giacimento per giacimento. E sono liberamente accessibili (www.fossilfuelregistry. org).

Il Registry calcola la quantità di CO2 equivalente associata alle riserve e alla produzione di combustibili fossili. Ha considerato (ma sarà in costante aggiornamento) quasi 50mila siti, distribuiti in una novantina di Paesi del mondo, pari al 75 per cento della produzione mondiale di fonti fossili. A «sfondare» il carbon budget basterebbe l’utilizzo delle sole riserve degli Stati Uniti o della Russia. Che sono in cima alla classifica dei maggiori detentori globali di «bombe di carbonio », seguiti da Cina, Arabia Saudita, Venezuela. La singola più potente fonte di emissioni al mondo, invece, è il giacimento petrolifero di Ghawar, in Arabia Saudita: produce ogni anno combustibili fossili per l’equivalente di oltre mezzo miliardo di tonnellate di carbonio. È del tutto evidente che non solo, come già ha detto chiaramente l’Agenzia internazionale dell’Energia, non è più pensabile continuare a ricercare e sfruttare nuovi giacimenti di fossili, perché del tutto incompatibile con gli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi. Ma occorre anche procedere a una rapida riduzione della produzione attuale, che poi traguardi il più velocemente possibile la fine dell’utilizzo delle fossili. Che è proprio quello a cui mira il Fossil fuel Treaty. Lo chiedono fra gli altri il Vaticano e l’Oms. All’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite, la Repubblica di Vanuatu è diventata il primo Stato al mondo a chiederlo ufficialmente. Poi è stata la volta del primo capo di Stato di un Paese produttore di combustibili fossili, José Ramos-Horta, Presidente di Timor Est e premio Nobel per la Pace 1996. Per tornare ai dati, ora usarli per prendere le decisioni che s’impongono sta a istituzioni, governi, aziende, società civile. E naturalmente a banche e investitori. Che, come numerose indagini hanno evidenziato, a sette anni dall’Accordo di Parigi continuano a sostenere lo sfruttamento delle fossili. Offrendo linfa finanziaria a chi pianifica aumenti di estrazione e produzione di carbone, petrolio e gas. Se la finanza vuol essere parte della soluzione e non del problema, deve porre fine a questo sostegno che, di fronte alla minaccia della crisi climatica, non si può non definire insostenibile. E irresponsabile. Non ce lo possiamo più permettere. Non c’è più tempo. Serve una finanza d’emergenza.