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Sostenibilità. Cimmino (Yamamay): «La sfida oggi è integrare la catena di subfornitura»

Maria Cristina Alfieri mercoledì 7 aprile 2021

Il percorso verso un modello di sviluppo più sostenibile ha, per molte imprese, un inizio simile: chi si trova nella cabina di regia sente che l’unico modo per garantire un futuro all’azienda è quello di ripensare processi e prodotti alla luce di parametri diversi, mettendo al centro del business un nuovo sistema di valori. Una presa di coscienza profonda e talmente sentita da accendere in azienda la miccia di un potente cambio culturale, che poco a poco diventa contagioso, si estende a dipendenti, clienti, fornitori. Investe il territorio e inizia a lasciare il segno. È iniziato esattamente così anche il cambio di marcia di Yamamay, brand icona dell’intimo made in Italy che, insieme alla griffe Carpisa, fa parte di Pianoforte holding, un gruppo con oltre 1.600 dipendenti, 1.070 negozi in 52 Paesi e un fatturato di 135 milioni di euro. In casa Yamamay, ad accendere la miccia del cambiamento è stata Barbara Cimmino, proprietaria e Csr director del Gruppo, dopo avere provato sulla sua pelle il disagio di inseguire un modello di sviluppo arrivato al capolinea. «Nel 2019 ho avuto un profondo periodo di crisi personale – ci confessa dal suo headquarter di Gallarate –. Ho compreso la follia di rincorrere un sistema che aveva come unico obiettivo la produzione incessante di merci che il mercato non riusciva più ad assorbire. Ho avuto la sensazione di girare su una giostra che non era più la mia».

Da qui la scelta di fermarsi, prendere quattro mesi sabbatici, rimettere mano a un piano di sostenibilità già abbozzato nel 2016 per portarlo a compimento e usarlo come faro per le future politiche di sviluppo. Il tempo di metterlo a punto ed è arrivata la pandemia. «L’ho vissuta come una conferma a livello globale che fosse giunto il momento di dire stop al modello di mercato cui eravamo abituati - spiega Cimmino -. La lezione positiva che ci lascia il Covid è proprio la necessità, non più rinviabile, di dover cambiare qualcosa». Una dichiarazione coraggiosa da parte di un’imprenditrice che ha vissuto, durante l’emergenza Covid, un ridimensionamento del suo business da 140 a 84 milioni di euro. «Il messaggio positivo è che utilizzando bene tutte le leve messe a disposizione dal governo, a partire dalla cassa integrazione, non abbiamo avuto perdite – precisa Cimmino –: ritengo questo un grandissimo risultato». Il gruppo ha anche avuto accesso a un prestito di 55 milioni da parte di Sace, a fronte di un piano ben strutturato di sviluppo, che includesse anche la crescita sostenibile. «Per ottenere questo prestito è stato deter- minante valorizzare il nostro nuovo modello di sviluppo, sintetizzato nel bilancio sociale 2019 che ha esplicitato l’impegno rispetto ai goals dell’Agenda 2030 dell’Onu» conferma l’imprenditrice. Particolare attenzione, in Yamamay, è stata riservata al tema di garantire salute e benessere alla collettività: «Un obiettivo per noi centralissimo – conferma Cimmino – perché riteniamo che i nostri prodotti prima che essere belli debbano far star bene chi li indossa. Così come i nostri negozi devono essere accoglienti per chi li frequenta. Dal 2001 abbiamo delle Academy che formano il personale interno, perché sappia garantire ai clienti un servizio che va ben oltre la mera vendita. Riteniamo infatti che il negozio svolga un ruolo sociale importantissimo: è un luogo d’incontro, un facilitatore di relazioni e deve saper offrire piccoli momenti di felicità».

Ma l’impegno sul fronte delle risorse umane non si limita ai negozi, riguarda anche le prime linee del gruppo, rispetto alle quali Barbara Cimmino sta guidando un processo di trasformazione per ridurre il gender gap. «In Yamamay l’85% delle nostre 800 persone è donna, ma non abbiamo figure femminili in prima linea. E questo perché la mia famiglia, proprietaria del Gruppo, ha un’impronta molto maschilista. È stato un dolore ammetterlo, ma anche una bella sfida personale a rendere il board più aperto a donne e giovani e l’azienda più inclusiva». Obiettivo che va avanti di pari passo con quelli ambientali, visto che l’industria fashion è considerata la seconda più inquinante al mondo. «Dal 2013 stiamo lavorando con centri di ricerche, università, industria chimica e tessile per ripensare i prodotti nei materiali e nel design, rendendoli sempre meno impattanti» conferma.

Tutto questo senza dimenticare il tema centrale dei fornitori, che da un lato devono rispettare i protocolli di sostenibilità, dall’altro devono essere tutelati nel loro lavoro da un codice etico, che garantisca anche la trasparenza di filiera. «La prima domanda che ci fanno sui social i consumatori quando parliamo di sostenibilità è questa - spiega Cimmino -. Noi dal 2001 abbiamo rigidi protocolli di conformità del prodotto e un codice etico che chiediamo ai fornitori di rispettare attraverso uffici sul territorio. Oggi però questo presidio non è più sufficiente, perché bisogna conoscere bene anche la catena di sub-fornitura, che rappresenta il vero rischio. Abbiamo quindi avviato un processo di audit fisici, su temi ambientali e sociali, certificati da parti terze, utilizzando un sistema che non è punitivo, ma migliorativo: quando qualcosa non è conforme, si studia una soluzione con il fornitore, dandogli tempo per tornare compliant». Va da sé che per chiudere il cerchio di questo grande impegno in campo ambientale e sociale sia necessario comunicarlo al consumatore finale, educandolo a una spesa più consapevole. «In quest’ottica insieme a Confimprese, associazione che riunisce i grandi brand del retail, abbiamo deciso di sostenere un’iniziativa nata proprio per educare a una spesa più etica. Si tratta della green week, che si terrà dal 4 al 13 giugno in tutta Italia, durante la quale le insegne del retail che hanno un’offerta di prodotti sostenibili certificati, potranno aderire a una campagna di comunicazione nazionale, che si tradurrà in comunicazione sui social, messaggi in vetrina, materiale e piccoli eventi all’interno del negozio. Un modo per riattivare i consumi con un approccio più responsabile rispetto a quello bulimico dei vari black Friday». Un piccolo segno, ma importante, che adottare nuovi modelli di sviluppo, come ha fatto Yamamay, inizia a dare i suoi frutti.