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Ambiente. Greenhushing, quei colpevoli silenzi sulle strategie di sostenibilità

Ilaria Solaini venerdì 20 ottobre 2023

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Perché molte aziende che iniziano un percorso di sostenibilità non comunicano i propri risultati e anzi li nascondono? Quali conseguenze provoca questa mancanza di comunicazione all’azienda stessa e nel contrasto al cambiamento climatico?

La tendenza a celare le proprie strategie su sostenibilità e ambiente è chiamata greenhushing (hush significa silenziare) ed è un fenomeno in aumento tra le grandi aziende americane, che spesso scelgono il silenzio nel tentativo di evitare controlli e accuse di greenwashing. Sono strette in una morsa. Da un lato gli attivisti di orientamento liberal-progressista hanno citato in giudizio le grandi imprese per aver fatto troppo poco per combattere l’aumento delle temperature globali, dall’altro i legislatori conservatori hanno boicottato le aziende che tengono conto dei rischi climatici e delle preoccupazioni sociali nelle loro decisioni di investimento. Non molto tempo fa le aziende guadagnavano punti attirando l’attenzione sui propri obiettivi di sostenibilità: negli Stati Uniti, persino, chi opera nel settore della vendita di combustibili fossili – come BP e Shell – prometteva di ridurre le proprie emissioni. Amazon aveva nominato l’iconico centro sportivo di Seattle “Climate Pledge Arena” in modo che né gli appassionati di hockey né quelli di basket potessero ignorare la promessa dell’azienda di azzerare le proprie emissioni entro il 2040. In altre parole, le società private che controllano migliaia di milardi di dollari in asset potevano dar prova di volersi e potersi muovere più velocemente dei governi per rallentare l’impatto sul cambiamento climatico. Andando così incontro alle esigenze di tutti quelli che hanno a cuore il cambiamento climatico: per l’88% dei giovani europei quello è il problema prioritario del nostro futuro.

Dallo scorso autunno, però, centinaia di aziende hanno iniziato a tacere sui temi green, scegliendo il greenhushing, ossia l’opposto della pratica più nota chiamata greenwashing, in cui le aziende esagerano la propria sostenibilità nel tentativo di rivolgersi a consumatori attenti all’ambiente. Questo aumento del silenzio sulle politiche ambientali, sociali e di governance (Esg) riflette la paura che molti dirigenti aziendali affrontano quando valutano se parlare apertamente del cambiamento climatico che viene affrontato sempre più non come un tema scientifico, quale è, bensì come un tema politico e divisivo. Piuttosto che rischiare sanzioni o scontrarsi con la diffidenza dei consumatori, molte aziende preferiscono non comunicare il proprio impegno e i propri progressi nelle policy ambientali e di sostenibilità. Secondo uno dei pochi studi sul fenomeno del greenhushing a livello mondiale – realizzato da South Pole, società svizzera di consulenza sul clima e di compensazione delle emissioni di carbonio –, un’azienda su quattro aveva pianificato di diventare verde, ma poi ha cambiato policy aziendale e ha taciuto sui propri impegni climatici. C’è persino chi ha smesso del tutto di utilizzare il termine “Esg” perché è diventato troppo politicizzato. «Non uso più la parola Esg perché è stata utilizzata ugualmente come arma dall’estrema sinistra, così come dall’estrema destra» ha spiegato il Ceo di BlackRock, colosso di investimenti a New York che fa parte della Net Zero Asset Managers Initiative, un consorzio di grandi società finanziarie che si sono impegnate a ridurre le emissioni nette entro il 2050.

«Se sei un amministratore delegato con tutte le giuste intenzioni, potresti essere denunciato da entrambe le parti: da sinistra e da destra», ha aggiunto Renat Heuberger, co-fondatore e Ceo di South Pole. «E questa non è una buona notizia, se si vuole convincere più amministratori delegati a impegnarsi attivamente sul clima».
Tornando da questa parte dell’Atlantico, in Europa i regolatori hanno cercato di reprimere il greenwashing. Nello specifico la Commissione Europea ha previsto di richiedere alle aziende di comprovare le affermazioni sulla loro sostenibilità, comprese le affermazioni secondo cui i loro prodotti sono «climaticamente neutrali» o «contenenti materiali riciclati». Sebbene intese a prevenire il greenwashing, queste nuove regole in vigore da gennaio 2024 che coinvolgeranno inizialmente circa 40mila tra grandi aziende e piccole e medie imprese, potrebbero in realtà incoraggiare proprio il greenhushing, soprattutto tra quelle aziende con sede negli Stati Uniti che vogliono vendere prodotti in Europa, ha spiegato Xavier Font, professore di marketing della sostenibilità all’Università del Surrey in Inghilterra. Alcune di queste aziende, secondo Font, avrebbero smesso di pubblicizzare la propria sostenibilità, proprio per paura di azioni legali nel Vecchio Continente per aver violato queste direttive europee.
«Quasi 40mila aziende sono obbligate a compiere una rendicontazione. Un bel passo avanti, certo, ma temo ancora non abbastanza. Nell’Unione Europea ci sono più di 20 milioni di aziende di cui più di 200mila con minimo 50 dipendenti e solo una parte di esse sarà soggetta all’obbligo» ha spiegato Alessandro Broglia, ingegnere aerospaziale che ha fondato Up2You, una startup greentech che accompagna le aziende in percorsi su misura verso la sostenibilità ambientale.
«C’è, però, un aspetto positivo: a oggi il numero di aziende che hanno realizzato un bilancio di sostenibilità è incredibilmente superiore a quello della platea definita dalla direttiva. Questo perché i benefici dell’affrontare la sostenibilità in azienda e le forze esterne (mercato, clienti, investitori, etc.) hanno avuto un effetto significativo».
Secondo Broglia, questo effetto a cascata è frequente e riguarda «le aziende stesse che per essere più competitive sul mercato iniziano a voler sapere che cosa fanno i loro fornitori, e dunque tutta la catena del valore che comprende marketing, vendite, distribuzione, fino alle attività di smaltimento viene sottoposta a verifica in termini di sostenibilità e riduzione delle emissioni inquinanti». In questo scenario si colloca anche la direttiva sui Green Claim, al voto all’Europarlamento a novembre, che risponde all’esigenza di fornire informazioni affidabili e verificabili in relazione alle dichiarazioni ambientali delle aziende, per evitare ulteriori fenomeni di greenwashing. E uno dei nodi cruciali riguarda proprio la compensazione delle emissioni di carbonio che non potrà più essere usata per affermare che un prodotto ha un “impatto zero” sull’ambiente. «Se da una parte la riduzione è imprescindibile, allo stesso tempo senza attività di compensazione sarà praticamente impossibile raggiungere gli obiettivi fissati per il 2050 dall’Unione Europea» ha precisato ancora Broglia che con la sua Up2You sostiene le aziende in questo percorso di decarbonizzazione.
Tornando al greenhushing si è di fronte a una sorta di paradosso. Di fatto, viene nascosto quello che in realtà rappresenterebbe un punto di forza, per scongiurare eventuali sanzioni ed evitare di incoraggiare lo scetticismo dei consumatori. Il 60% del campione di consumatori interpellati – si legge in uno studio effettuato da Up2You – si è detto scettico riguardo i risultati di sostenibilità comunicati dalle aziende e ritiene che gli interessi aziendali siano solo legati al profitto.
Inoltre, l’80% si aspetta che siano le aziende stesse ad adottare soluzioni per la transizione green, mentre la metà degli intervistati pensa che sia il singolo individuo a fare la differenza nella lotta al cambiamento climatico.
Sebbene gli investimenti fatti dalle aziende per essere più sostenibili dal 2018 al 2020 siano cresciuti del 15%, raggiungendo un totale di 35.300 miliardi di dollari in tutto il mondo, secondo il “Global Strategic Insight 2022”, solo il 19% di chi acquista prodotti di largo consumo sa nominare con certezza un brand impegnato concretamente nel miglioramento delle performance di sostenibilità. Dunque, la comunicazione resta il punto debole nella transizione ecologica, come messo in luce da Hermine Penz, professoressa di inglese all’Università di Graz in Austria. «Qualsiasi società trova nuove parole solo se c’è un nuovo fenomeno da descrivere», ha spiegato al New York Times. «È ormai impossibile essere ecologici? Le aziende devono nascondere le proprie attività? Le persone non sanno come parlare di quello che stanno facendo».