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Sviluppo sostenibile. Altro che Antropocene: questa è l'era degli scarti

Luca Miele mercoledì 15 dicembre 2021

E se il nostro non fosse il tempo del trionfo dell’immateriale ma, al contrario, un’epoca segnata da qualcosa di tremendamente solido, irriducibile e, in alcuni casi, persino indistruttibile? Qualcosa che accompagna e doppia, come un’ombra, ogni nostro gesto quotidiano e che, una volta dismesso, si accumula, si ammassa, si sposta da un continente all’altro, dà vita a geografie letteralmente fantastiche, finendo per sfigurare il pianeta? Se, insomma, la nostra non fosse altro che l’era dei rifiuti? La suggestione rimbalza nelle pagine di L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale (Einaudi, pag. 136, euro 15), scritto da Marco Armiero, direttore dell’Environmental Humanities Laboratory del KTH di Stoccolma. Non abitiamo l’Antropocene, ma il Wasteocene (waste: rifiuto, scarto). La nostra era è, dunque, segnata non solo dalla poiesis umana, capace nella saldatura tra sapere scientifico e tecnologia di incidere sulla superficie del pianeta ma, più in particolare, «dalla capacità umana di influire sull’ambiente al punto di trasformarlo in una gigantesca discarica».

I numeri testimoniano le dimensioni cataclismatiche del fenomeno. Il mondo produce circa due miliardi di tonnellate di rifiuti all’anno. Il 99% delle cose acquistate ha, peraltro, una vita molto breve: viene cestinato nel giro di sei mesi. Secondo un rapporto della Banca mondiale, segnalato da Armiero, «entro il 2050, la produzione annuale di rifiuti solidi municipali aumenterà da 2,01 a 3,40 miliardi di tonnellate ». Una crescita vertiginosa. Un particolare cenno lo merita la plastica, il materiale che fa da involucro a quasi tutto ciò che usiamo (o abusiamo) quotidianamente. Come segnala Nature, dal 1950 la produzione globale di plastica è stata pari a «circa 8,3 miliardi di tonnellate, metà della quale è stata prodotta negli ultimi 13 anni, più di 300 milioni di tonnellate all’anno». Una (fiorente) industria si è fondata sulla esportazione della plastica scartata che 'viaggia', prevalentemente, su nave. Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Giappone 'occupano' oggi il 46% del flusso mondiale dei rifiuti di plastica (più di sette milioni di tonnellate). La Malaysia è la prima destinataria al mondo di questo flusso con il 12% del totale. Prima del 2017, quando ha deciso di invertire la rotta con il divieto di importare 24 tipi di rifiuti solidi (plastica compresa), era la Cina a detenere il primato: il colosso asiatico 'comprava' il 55,7 dei rifiuti di plastica dell’intero pianeta.

Scartato, bruciato, occultato, riciclato, rimosso il rifiuto riemerge con forza, e con una forza dirompente, nel nostro immaginario. Non è un caso che lo scarto sia entrato di prepotenza in quel sismografo sensibile che è l’arte contemporanea, pronta a catturare lo statuto ontologico 'bifronte', duplice, della merce: oggetto circondato da un’aura di desiderio da un lato, scarto da seppellire o riciclare dall’altro. Una vera e propria doppia vita. Come ha scritto Guido Viale «merci e rifiuti sono aspetti di un’unica 'cosa', ma al tempo stesso si escludono reciprocamente, come fasi temporalmente distinte di un processo complessivo o come referenti di due moti diametralmente contrapposti del comportamento umano: il primo diretto all’acquisizione e al possesso, il secondo diretto all’allontanamento e all’oblio». La Pop Art, da una parte, l’arte di Alberto Burri dall’altra, sono solo due dei tanti possibili esempi che si possono estrarre per testimoniare l’invasione dell’oggetto (nella sua duplice veste) nel campo dell’estetica: la prima codifica l’atemporalità della merce, ridotta a segno grafico, la sua riproducibilità seriale nel nome del consumo. La seconda usa l’oggetto-materia per fare arte: lo scarto entra letteralmente dentro la tela. Ma se il rifiuto è il vero segno del Wasteocene, come impedire che l’intero pianeta ne sia sommerso? Se la discarica è la 'cifra' della nostra contemporaneità, come evitare che il mondo diventi una discarica? Ci soccorre qui la 'lezione' di Armiero. Dentro l’universo del rifiuto bisogna metterci (è il caso di dire) il naso. Annusarlo. Decostruirlo. Smontarne le dinamiche. Non considerarlo una totalità indivisa (la geografia dello scarto riflette la geografia delle ricchezze con i paesi poveri chiamati ad assorbire gli scarti di quelli ricchi), né un destino ineluttabile. Rintracciare, insomma, quel sistema di relazioni e di pratiche che, assieme allo scarto, crea 'le comunità da scartate'.

Per l’autore di L’era degli scarti, è necessario compiere due operazioni. La prima: rinunciare al mito del riciclo integrale e alla logica emergenziale che lo sorregge. «La discarica – scrive Armiero – è strumentale al mantenimento della sicurezza e della bellezza dei quartieri che le sono lontani». Alla base della logica della discarica c’è la volontà di allontanare, bandire, occultare il rifiuto. Ma il regime di emergenza che lo governa «serve a ripristinare l’ordine del Wasteocene, non a smantellarlo», a replicarlo all’infinito piuttosto che a trasformarlo. La 'regola' che crea lo scarto è la stessa che presiede alla creazione di comunità da scartare. «Il principio di ordinamento del Wasteocene – scrive Armiero – è riprodurre il privilegio attraverso lo scarto delle comunità subalterne». Esso «produce ricchezza e sicurezza attraverso l’alterizzazione di coloro che devono essere esclusi ». Lo scarto di oggetti diventa, al tempo stesso, lo scarto di luoghi e persone. Solo sfidando questo meccanismo è possibile sottrarsi alla 'prepotenza' del rifiuto.