Economia

Statuto dei lavoratori 50 anni. Treu: diritti di base uguali per tutti

Francesco Riccardi sabato 16 maggio 2020

Il presidente del Cnel, Tiziano Treu

«Così la Costituzione è entrata nelle fabbriche». L’approvazione cinquant’anni fa, il 20 maggio 1970, della legge 300, meglio nota come lo "Statuto dei lavoratori" ha segnato almeno due epoche. Ha chiuso, portandoli a compimento, decenni di lotta per l’affermazione dei diritti dei lavoratori, facendo – come si disse allora – entrare la democrazia nelle fabbriche. Rendendo, almeno le grandi imprese, non più luoghi di mero sfruttamento della forza lavoro. E ne ha aperta un’altra di epoca, per l’Italia, nella quale, dopo la spinta "anarchica" dello sviluppo impetuoso degli anni ’50 e ’60, i rapporti di lavoro potevano contare appunto su regole certe per evolversi. La spinta alla stesura dello Statuto si deve al ministro socialista Giacomo Brodolini, coaudiuvato dal giuslavorista Gino Giugni. L’approvazione finale al ministro democristiano Carlo Donat-Cattin che raccolse il testimone di Brodolini morto nel luglio 1969. Fin da subito si parlò di un irrigidimento eccessivo, addirittura di una legislazione contro l’impresa. Di certo, però, ai dipendenti quella legge ha garantito, come recita il sottotitolo, «libertà e dignità». Durante gli ultimi decenni del Novecento, lo Statuto ha subito diverse modifiche. Ma a farlo apparire "invecchiato" sono soprattutto i cambiamenti epocali degli assetti economico-produttivi e l’esigenza di tutelare tutte le forme di lavoro, non più solo quelle delle grandi imprese industriali. E allora serve un nuovo Statuto dei lavori, di tutti i lavori, o che cos’altro? Cinquant’anni dopo il dibattito è tanto aperto quanto urgente. Ne discutiamo con il giuslavorista Pietro Ichino, già parlamentare Pd, e, qui di seguito, con il presidente del Cnel Tiziano Treu, già ministro del Lavoro nei governi Dini e Prodi.

Tiziano Treu, lo Statuto dei lavoratori resta ancora oggi un baluardo imprescindibile per la tutela dei diritti dei lavoratori? O è diventato obsoleto e finisce per pesare come una zavorra sull'evoluzione del sistema economico e del mercato del lavoro?

Lo Statuto del lavoro è stato, ed è, una legge fondamentale - risponde Tiziano Treu -. Ha concluso un secolo di evoluzione del diritto del lavoro e del movimento sindacale. Ma, appunto, ha chiuso e cristallizzato delle conquiste del secolo scorso e dunque è giusto porsi la questione della sua attualità ed efficacia oggi. Sbagliò chi 50 anni fa lo considerò una legge “anti-industriali”, ma è vero che furono introdotte alcune rigidità. Come ad esempio la questione della reintegra nel posto di lavoro per i licenziamenti illegittimi, il famoso articolo 18. Quella previsione nasceva solo per garantire i dipendenti dalle discriminazioni, in particolare quelle per l’attività sindacale, ma venne troppo estesa. Meglio graduare le sanzioni per i licenziamenti illegittimi, come previsto ora con il Jobs Act e le successive interpretazioni giurisprudenziali. Un altro esempio è l’articolo 13 sulla mobilità nell’azienda, che non può essere materia su cui si esprime il giudice ma va lasciata alla contrattazione.

Di quale aggiornamento avrebbe bisogno per tutelare meglio tutti i lavoratori? Serve uno Statuto dei lavori o cosa altro?

Lo Statuto ha sempre riguardato solo una parte dei lavoratori, i dipendenti delle grandi imprese. Escludendo, ad esempio, i lavoratori delle aziende sotto i 15 dipendenti. Le imprese e il lavoro hanno subito un’evoluzione enorme in 50 anni e soprattutto negli ultimi due decenni. Tanto che già 20 anni fa, quando ero al governo avevamo iniziato a discutere di un nuovo Statuto dei lavori, progetto al quale si era dedicato anche Marco Biagi, per dare tutele di base a tutti i lavoratori, al di là della natura del loro contratto e della dimensione del datore di lavoro. Una base di regole comuni, fondamentali, per tutti. E poi una serie di altre tutele differenziate a “cerchi concentrici”, a seconda delle diverse tipologie e contratti di lavoro. Questo stesso sistema doveva poi comprendere anche materie come gli ammortizzatori sociali, le politiche attive, il welfare, la previdenza. In un sistema in cui alle tutele di base minime uguali per tutti si potessero poi aggiungere – grazie alla contrattazione, la bilateralità, l’apporto dei privati – altri “pezzi” per ingrandire e migliorare il “puzzle”.

Qual è il futuro del diritto del lavoro: poche leggi essenziali e massimo spazio alla contrattazione?

Se le leggi regolano le questioni fondamentali, certamente è utile allargare l’intervento della contrattazione. A patto, però, che si verifichino due condizioni. La prima è che sia ben regolata la rappresentanza, per evitare, come purtroppo sta accadendo sempre più spesso in questi ultimi anni, che cresca una “finta contrattazione”, fatta di accordi pirata, con sindacati gialli o fantasma e organizzazioni datoriali inconsistenti. La seconda è che la contrattazione di secondo livello – che oggi copre non più di un terzo dei lavoratori – sia estesa il più possibile, ad esempio tramite i patti territoriali. Ci sono però altri due aspetti che considero fondamentali. II primo, è il necessario cambiamento culturale, di imprenditori e sindacati, verso una reale partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese. D’altro canto evoluzioni come l’Industria 4.0, fortemente automatizzata e interconnessa, lo smart working e più in generale i portati rivoluzionari di progresso tecnologico e globalizzazione non possono che determinare un progresso dei rapporti tra impresa e lavoratori che vada oltre il conflitto. La seconda, è che si tenga conto della dimensione internazionale della regolazione del lavoro, a livello europeo e mondiale. Pensiamo solo a quanta legislazione proviene oggi da fonte comunitaria, e di quanta altra ne verrà in un’Unione Europea che si spera maggiormente integrata. Così pure è sempre più evidente che – in un mondo nel quale le supply chain, le catene di produzione e valore che si sono create a livello internazionale, acquistano sempre maggiore importanza – cresca la necessità di una regolazione omogenea anche in materia di lavoro.

L'INTERVISTA A PIETRO ICHINO