Economia

L'ntervista. Messina (Intesa): «Giù il debito ecco come fare»

Marco Girardo giovedì 4 aprile 2019

«Con 70 miliardi di interessi l’anno non si riesce a investire Sullo spread pesa un deficit di fiducia, i nostri punti di forza non emergono Aprire subito più cantieri possibile anche per salvare la classe media »

La diagnosi sull’Italia – ma più in generale su molte economie avanzate – è precisa: se non si riduce la disuguaglianza, la bomba sociale è destinata a esplodere. «In Italia cinque milioni di poveri e dieci della classe media a rischio povertà – dice Carlo Messina – rappresentano ben più di un’emergenza contingente: è un problema strutturale». Pure lo sguardo sull’Europa è netto: «Quello tra austerity e crescita come la querelle sui decimali in più o in meno nel rapporto tra deficit e Pil sono dibattiti sterili, perché se l’aumento della ricchezza non si accompagna a una riduzione delle disuguaglianze, ebbene, allora non garantisce sostenibilità. E quindi possibilità di investire risorse nelle nuove frontiere tecnologiche, a partire dall’Intelligenza Artificiale, una sfida dalla quale, altrimenti, Stati Uniti e Cina ci taglieranno fuori». Incontriamo il Ceo di Intesa Sanpaolo nella storica sede centrale di Ca’ de Sass. E non è un caso che la conversazione con un banchiere come Messina muova proprio dai temi sociali. Il Gruppo, con il piano industriale 2018-2021, li ha messi al centro della strategia di crescita. «Nel prepararlo – spiega l’amministratore delegato – abbiamo sondato le priorità che indicavano per la nostra azione gli uomini in prima linea, quelli che lavorano nelle filiali e incontrano direttamente le famiglie e le imprese. Ci hanno rimandato anzitutto l’istantanea delle fatiche di milioni di persone che si sono ritrovate repentinamente nella condizione di working poors, persone che un lavoro ce l’hanno, ma non è più sufficiente a garantire un tenore di vita dignitoso. In molti scivolano nella povertà e si ritrovano in giacca e cravatta in fila alla mensa della Caritas ». La scelta conseguente, per Intesa Sanpaolo, «è stata allora di diventare oltre che un acceleratore per l’economia reale del Paese, il motore dell’economia sociale». A partire dal grande progetto ISP Fund for Impact, un fondo con dotazione iniziale di 250 milioni di euro che consentirà nel tempo l’erogazione di prestiti per 1,2 miliardi a categorie con difficoltà di accesso al credito, rendendo di fatto Intesa la prima Impact bank al mondo. Il 25 febbraio, poi, è partito 'per Merito', prestito privo di garanzie rivolto a oltre 1,6 milioni di universitari in Italia. Un plafond da 5 miliardi in tre anni è riservato invece all’Economia circolare. E solo nel 2018, in collaborazione con le realtà del Terzo settore, oltre 3 milioni di interventi diretti di contrasto alla povertà – dai pasti ai medicinali agli alloggi – hanno reso di fatto il Gruppo bancario il più grande operatore privato nel Welfare in Italia. Che promuove iniziative speciali, come quella di cancellare i mutui alle famiglie colpite da disastri naturali o dal crollo del Ponte a Genova. «Oltre a crederci personalmente – afferma il banchiere – questa svolta strategica è stata apprezzata dai grandi investitori internazionali». Per primo da Black-Rock, il colosso mondiale del risparmio. «Il 2018 – continua Messina – è stato un anno test, ma ciò che gli azionisti oramai chiedono ai big player è proprio di garantire una crescita complessiva nel contesto in cui operano, restituire risorse alle comunità. E, quando serve, svolgere un ruolo di supporto al bene comune. Con un trilione di risparmi degli italiani in gestione e 440 miliardi di impieghi abbiamo la forza per farlo. Ed è il motivo per cui ho deciso di rafforzare i nostri interventi ad impatto sociale. Presentando il meglio dell’Italia anche all’estero». La ricaduta sul senso di appartenenza dei dipendenti e sull’immagine presso tutti gli stakeholder, sostiene Messina, è notevole. Perché permette forse di coniugare patriottismo e solidarietà.

Potete distribuire questo 'dividendo sociale' anche perché avete i conti in ordine. Il bilancio del 2018 si è chiuso con 4,05 miliardi di utile, migliori risultato dal 2017. La patrimonializzazione è elevata. Per l’Italia ci può essere crescita e quindi riequilibrio sociale senza stabilità finanziaria?
Chi governa deve tenere i conti in ordine e allo stesso tempo investire nel futuro del Paese e stare vicino a chi ha bisogno. In Italia paghiamo 70 miliardi di interessi sul debito pubblico ogni anno. È una cifra pari all’investimento in istruzione. Con la conseguenza che abbiamo il più basso numero di laureati dei Paesi Ocse. E che le risorse per dare sostegno alle nuove forme di povertà non sono sufficienti.

Quale dovrebbe essere la priorità della politica economica allora?
Ridurre lo stock del debito. Quei 2,3 trilioni di euro che paralizzano il Paese. E non puoi farlo semplicemente guardando alle regole europee, al rapporto tra deficit e Pil e quindi tra debito e Pil. Non basta ridurre il rapporto crescendo di più o contenendo la spesa. Occorre tagliare lo stock per liberare risorse.

Sembra una sfida che nessuno è disposto a cogliere. Forse perché non si sa proprio da dove partire se bisogna scalare l’Everest.
Ma le basi ci sono. Bisogna collegare i nostri punti di forza: è inaccettabile che non si valuti come poter ridurre un debito pubblico da 2.300 miliardi quando nel Paese ci sono 10.500 miliardi di ricchezza privata e oltre 1.000 miliardi di asset pubblici.

Perché nessuno riesce a valorizzarli? In manovra sono previsti appena 18 miliardi dalle privatizzazioni. E non per ridurre il debito.
Sono convinto che gli asset immobiliari pubblici possano essere valorizzati con un programma pluriennale, indipendentemente dalla loro appartenenza all’amministrazione centrale o periferica. Come? Mettendoli in connessione con l’enorme ricchezza finanziaria degli italiani. Una patrimoniale? No, non è quella la strada per valorizzare entrambi, patrimonio pubblico e ricchezza privata. Bisogna creare degli strumenti finanziari ad hoc, sulla scia di quanto fatto con i Pir. Fondi immobiliari, anche locali, che investano in questi asset e vengano poi collocati presso i piccoli risparmiatori, con garanzie sui rendimenti e incentivi fiscali. Gli immobili tra l’altro, non sarebbero svenduti e resterebbero in Italia. Banche, assicurazioni, Cdp potrebbero affiancare i piccoli risparmiatori. Penso che con un’operazione di questo tipo il nostro spread si avvicinerebbe a quello francese. E comunque scenderebbe sotto i 150 punti base.

Lo spread è fondamentalmente questione di fiducia. Fiducia nella capacità dell’Italia di rimborsare i bond governativi. Stando ai rating, la fiducia è piuttosto bassa…
Il calo di fiducia che ha riguardato la prospettiva dei nostri conti pubblici fa sì che non vengano valutati appieno i nostri punti di forza: il risparmio, la seconda industria manifatturiera d’Europa, la forza dell’export e uno fra i primi cinque avanzi commerciali al mondo, una miriade di imprenditori 'smart'. La forza del made in Italy, insomma, che resta un modello vincente.

Ma un debito al 132% del Pil è sostenibile?
Sì, lo è. Ma non lascia margini per crescere. Liberandoci dalla zavorra del debito, il gap di fiducia si ridurrebbe. E anche gli investitori comincerebbero a guardare meglio ai nostri fondamentali. L’Italia potrebbe così concentrarsi sullo sviluppo, sulla lotta alla povertà e sul sostegno della classe media. Il nostro Paese decollerebbe, tornerebbe a primeggiare in Europa e potrebbe anche investire per il futuro.

Dove?
Subito infrastrutture, strade, ospedali, scuole e porti, soprattutto al Sud. E poi istruzione, ricerca e innovazione. Ci sono 150 miliardi di risorse pubbliche già stanziate. Noi ci affiancheremmo per garantire un effetto leva: lo scorso anno Intesa ha erogato nuovo credito a medio e lungo termine per 50 miliardi, possiamo continuare a farlo nei prossimi anni anche in misura maggiore.

A proposito di divario Nord-Sud: fra i progetti avviati da Intesa c’è anche un’iniziativa per i Centri di eccellenza nel Mezzogiorno.
Serve a formare quei 20mila 'cervelli' che rilancino l’innovazione, il capitale intellettuale che servirà per far fronte alle ricadute della robotica. Ma in parallelo, per rilanciare il Mezzogiorno, è necessario aprire più cantieri possibili: edilizia e grandi costruzioni, lavori con una componente di occupazione massiva così da muovere subito l’economia.

Fanno bene l’Europa e le organizzazioni internazionali a ricordare che il nostro problema più grave è la mancata crescita?
All’Italia serve una crescita che riduca le disuguaglianze. Per questo non solo da noi, ma in tutta Europa bisogna lavorare sul ceto medio. Altrimenti non ci sarà possibilità per la politica di costruirsi un futuro. Sovranisti e non, proausterity e contro l’austerity: discussioni sterili, se non si affronta il problema del ceto medio. L’Europa che uscirà dalle elezioni deve scegliere se vuol ridurre le disuguaglianze o perseguire un 2% di crescita senza ancorare lo sviluppo alla stabilità sociale.

L’Italia, per quel che riguarda la crescita, quest’anno non arriverà neanche allo 0,2%.
Bisogna ricominciare a investire, non c’è altra strada.

Dovrebbero arrivare (oggi forse) lo Sblocca-cantieri e il decreto Crescita proprio per questo.
Speriamo.

La preoccupa l’impatto di un’eventuale nuova recessione e di conseguenza le inevitabili nuove tensioni sui titoli pubblici? Avrebbero un impatto anche sul vostro bilancio e sull’erogazione e i costi del credito? Quando sentiamo dire che alcuni Paesi, a partire dalla Germania, non vogliono completare l’Unione bancaria e cioè condividere i rischi perché ci sono troppi titoli pubblici in pancia alle banche italiane, l’Italia potrebbe rispondere che nelle banche francesi e tedesche ci sono troppi derivati.

L’Italia dovrebbe attaccare per questo Germania e Francia? Sono i nostri primi partner commerciali, industriali, culturali. I nostri alleati. Non c’è Europa senza questi tre Paesi. Ma bisogna saper far pesare le proprie ragioni in un’ottica collaborativa.

Il vicedirettore generale Bankitalia, Fabio Panetta, ha dichiarato di recente che c’è stata troppa enfasi a livello di regole Ue sulle sofferenze delle banche italiane e poca sui cosiddetti strumenti di secondo livello, i derivati appunto, che valgono almeno 6.000 miliardi…
È più facile determinare il valore di un Non Performing Loan. Noi ne abbiamo ridotto lo stock di 16 miliardi a valore di libro (di bilancio, senza svalutarli, ndr) solo lo scorso anno. Dietro una sofferenza c’è un bene tangibile, quantificabile, c’è una casa, una fabbrica. Dietro un derivato ci sono almeno 4 algoritmi. È difficile quantificarli, calcolarne il valore, il prezzo vero. Ed è difficile trovare investitori interessati ad acquistarli. Ragion per cui, nei bilanci di alcune banche europee ci sono tuttora potenziali rischi significativi.

Anche sul bail-in l’Italia di fatto ha ceduto. Ora, dopo la sentenza della Corte Ue su salvataggio di Banca Tercas attraverso il nostro Fondo interbancario, anche il presidente dell’Eba, Andrea Enria, ha sostenuto la necessità di rivedere le regole.
Condivido quanto sostenuto da Enria. L’Italia doveva prendere una posizione più netta per non far passare il bail-in in quei termini. In un Paese con il nostro stock di risparmio è stato un grave errore, la causa che ha fatto venir meno la fiducia tra i cittadini e un sistema bancario nel complesso sano.