Economia

Tendenza. Avvocati, dagli studi legali alla carriera in azienda

Maurizio Carucci martedì 9 agosto 2022

Sempre più avvocati abbandonano la libera professione

Sono sempre di più gli avvocati che preferiscono abbandonare la professione libera e cominciare una carriera in azienda o nella Pubblica amministrazione. Il 28,4% dei legali, infatti, ha definito molto critica la propria situazione nel corso del 2021, caratterizzata da scarsità di lavoro e da un generale senso di incertezza. È quanto emerge dal VI Rapporto Censis sull’avvocatura italiana realizzato per la Cassa Forense su un campione di oltre 30mila avvocati. Circa un terzo degli avvocati definisce la situazione abbastanza critica, sebbene ci siano margini per superare le difficoltà (32,8%). Stabile e in continuità con il 2020, invece, la situazione per il 24,5%, mentre 14 avvocati su 100 rappresentano la quota di chi ha visto migliorare la propria condizione rispetto all’anno precedente. In prospettiva, una valutazione positiva sugli anni 2022 e 2023 emerge dal 23,3% del campione, al quale si contrappone poco meno di un terzo (30,0%) che avverte un peggioramento nel corso di quest’anno e del prossimo. Non prevede grossi cambiamenti il restante 46,7% degli avvocati, ma la quota di professionisti che sta prendendo in considerazione l’ipotesi di lasciare l’attività riguarda circa un terzo degli avvocati (32,8%). Chi intende lasciare la professione sarebbe spinto prevalentemente dai costi eccessivi che l’attività comporta e dal ridotto riscontro economico (63,7%). Nel 2021 sono 241.830 gli avvocati iscritti alla Cassa Forense: il 94,3% risulta attivo, mentre il restante 5,7% è rappresentato da pensionati contribuenti. Rispetto al 2020 si osserva una riduzione degli iscritti pari a 3.200 unità (-1,3%). Gli avvocati attivi sono 4,1 ogni 1.000 abitanti. La distribuzione per genere vede una leggera prevalenza maschile con il 52,3% sul totale. La distribuzione per area geografica mette in evidenza il peso della componente meridionale sul totale degli iscritti: circa un terzo degli avvocati risiede al Nord, contro il 43,8% degli avvocati presenti nel Mezzogiorno e il 22,5% nelle regioni centrali. Poco meno di sei avvocati su dieci hanno un’età inferiore ai 50 anni, mentre gli over 60 coprono una quota di poco superiore al 15%. Il dato porta l’età media degli iscritti a 48,7 anni e quella degli iscritti attivi a 47,2 anni. L’età media dei pensionati contribuenti è di 73,7 anni. Il peso delle donne sul totale degli iscritti è inversamente correlato all’età anagrafica, con una maggiore presenza femminile in tutte le classi d’età inferiori ai 55 anni: fatto 100 il totale degli avvocati con un’età inferiore ai 35 anni, il 59,1% è rappresentato da donne. Nell’anno della pandemia, il reddito medio annuo di un avvocato, iscritto alla Cassa, ha subito una riduzione di sei punti percentuali, collocandosi su una soglia di poco inferiore ai 38mila euro. La distanza fra il reddito medio di una donna avvocato e quella di un collega uomo è tale che occorre sommare il reddito di due donne per sfiorare (e non raggiungere) il livello medio percepito da un uomo: 23.576 euro contro i quasi 51mila. La dinamica del reddito medio, osservato a partire dal 2005, riporta una tendenza declinante, dovuta all’allargamento della base degli avvocati iscritti e alla progressiva estensione della componente femminile. Segnala anche il periodo di sofferenza maggiore sopportato dalla professione in corrispondenza degli anni di recessione più dura per l’Italia, fra il 2012 e il 2017. Solo nell’anno precedente alla pandemia si era registrata un’inversione di tendenza che aveva riportato il livello del reddito medio sopra la soglia dei 40mila euro. Il 29,9% degli avvocati ha visto aumentare il fatturato del 2021 rispetto al 2020, mentre il 42,4% ha registrato una diminuzione, quota molto più elevata rispetto a quella di chi è riuscito a mantenere la propria attività in condizioni di stabilità (27,8%).

Le prospettive di crescita della professione

Le traiettorie dello sviluppo trovano nell’ambito delle specializzazioni un ampio campo di dibattito all’interno della professione. Per il 46,8% degli avvocati il diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza rappresenta la specializzazione, in ambito civile, con il maggiore potenziale di sviluppo nei prossimi tre anni. Nell’area penale sono soprattutto le questioni legate a internet, all’informazione e alle nuove tecnologie a essere percepite come portatrici di opportunità (40,3%). Nell’area amministrativa prevale fra le opzioni degli avvocati il diritto dell’ambiente e dell’energia (36,5%), il diritto sanitario (34,5%), il diritto urbanistico, dell’edilizia e dei beni culturali (21,8%). Il 42,2% degli avvocati considera prioritaria l’offerta di una pluralità di servizi, seppure nell’ambito di realtà organizzative multidisciplinari e specialistiche, senza tralasciare o annullare il rapporto fiduciario. Il 35,2% sottolinea ancora di più il valore del rapporto di fiducia, mentre il restante 22,7% constata che la specializzazione si pone in alternativa al rapporto di fiducia e che quest’ultimo sia destinato a perdere di rilevanza. Nel nostro Paese c’è carenza di avvocati specializzati nelle aree più classiche: sono pochi gli amministrativisti e i tributaristi, due ambiti che richiedono un livello di assistenza sempre crescente. Servono poi sempre più professionisti sul tema della compliance, ormai fondamentale per tutte le aziende. E c’è bisogno di avvocati specializzati sull’evoluzione tecnologica: la dimensione digitale delle nostre vite, che si espanderà ancora con realtà come le criptovalute o il metaverso, dal punto di vista legale è una prateria gigantesca. «Da qualche tempo – spiega Pier Francesco Mercanti, Associate Executive Manager di Michael Page – stiamo assistendo a un fenomeno abbastanza particolare: molti professionisti, che magari hanno maturato alcuni anni di esperienza all’interno dei vari studi legali, a un certo punto sentono il bisogno di spostarsi in azienda. Le motivazioni possono essere molteplici, ma ci sono due elementi ricorrenti: la ricerca di una maggiore sicurezza che un contratto da dipendente garantisce rispetto a una partiva Iva e la speranza di trovare un miglior bilanciamento tra lavoro e vita privata con orari più canonici e ritmi meno stressanti». Un passaggio, però, tutt’altro che semplice. Per un avvocato (il discorso vale anche per chi non ha ancora conseguito il titolo ma lavora comunque come praticante in uno studio) entrare a lavorare in azienda è complicato. Dobbiamo considerare che la funzione legale rappresenta per le aziende un centro di costo, che le porta ad affidarsi a consulenti esterni. Ancora oggi, a eccezione di quelle poche grandi realtà che hanno un dipartimento strutturato, gran parte degli uffici legali è di piccole dimensioni e con limitatissime prospettive di crescita. Di conseguenza si aprono poche posizioni sul mercato e la domanda è nettamente inferiore all’offerta. Un ulteriore ostacolo è rappresentato dai secondment, grazie al quale uno studio legale presta un proprio collaboratore a una certa azienda per un periodo di tempo limitato e stabilito. «Quelli appena descritti – aggiunge Mercanti – rappresentano sicuramente degli ostacoli, non degli impedimenti. Se si hanno le carte in regola e la giusta determinazione è certamente possibile riuscire ad ottenere il lavoro. Ciò che invece a volte manca è una piena consapevolezza di cosa significhi, realmente, cambiare prospettiva. Questo è un aspetto determinante quando si valuta un cambio di questo genere, perché il rischio di commettere un errore è dietro l’angolo. In un mercato legale ormai fortemente caratterizzato dalle specializzazioni, infatti, lavorare in house comporta il più delle volte il ritorno ad un approccio generalista: il giurista d’impresa deve conoscere e saper gestire tematiche legali svariate (dalla contrattualistica alla segreteria societaria, dal precontenzioso alla compliance e alle operazioni straordinarie, giusto per citare alcuni esempi) e spesso questo può essere considerato una sorta di retrocessione e può essere, a lungo andare, motivo di frustrazione. In azienda, inoltre, la crescita professionale è più lenta e, in alcuni casi, anche la retribuzione può essere più bassa». Sebbene non esista il momento giusto per lasciare lo studio legale a favore di un’azienda, qualche anno di esperienza in studio (almeno 3-4 anni) può essere utile ai fini della formazione di un buon professionista. In studio si impara a lavorare sotto stress e scadenze, ad affrontare questioni più o meno complesse, a gestire i rapporti con interlocutori diversi. Inoltre, più si riesce a posticipare il momento del passaggio, più si avranno le carte in regola per concorrere a posizioni con responsabilità maggiore e quindi meglio retribuite. Per facilitare il passaggio, infine, è molto utile avere un solido background in materia di diritto societario e commerciale, in tutte le sue declinazioni. Le specializzazioni (per esempio in diritto del lavoro, in diritto amministrativo) rappresentano certamente una carta vincente nel caso di grosse società con uffici legali complessi. Per gran parte delle realtà aziendali nel nostro paese, è preferibile avere una competenza corporate a 360°. Per chi si occupa esclusivamente di contenzioso – un ambito che le aziende sono costrette ad esternalizzare – il salto di carriera è più complicato, ma certamente non impossibile.

LexCapital start up a costo e rischi zero

Truffe, violazioni, abusi. Ogni anno molte aziende, e non solo, rinunciano a intraprendere cause civili per far valere i propri diritti per il timore di dover affrontare procedimenti lunghi con esiti incerti e spesso con costi legali e tecnici ingenti. Dall’esperienza degli Stati Uniti, anche in Italia si sta sviluppando un nuovo mercato (nel 2019 valeva già circa cinque miliardi di euro) che potrebbe raggiungere in Europa 48 miliardi entro il 2025. Si chiama litigation funding, traducibile come “finanziamento del contenzioso”, un’operazione innovativa con cui una parte terza acquista il diritto litigioso e mette le proprie risorse finanziarie e la propria rete di legali e consulenti specializzati a disposizione di chi vuole tutelare un proprio diritto per poi dividerne gli eventuali proventi. Anche per questo è nata LexCapital, una start up innovativa e società benefit, costituita da un gruppo di imprenditori e professionisti operanti in ambito finanziario e legale. Fondata da Emilio Campanile, Marcello Gallo, Maurizio Santacroce e da Giuseppe Farchione, che ne è coo, seleziona, valuta e acquista il diritto litigioso da un soggetto, al fine di gestirlo nella maniera più efficiente e rapida possibile. In cambio del diritto acquisito, la start up si impegna a sostenere tutti i costi legali e tecnici connessi, assumendosi anche ogni rischio e costo dell’eventuale soccombenza. In generale, si rivolge a imprese, curatori fallimentari e altri organi di procedure, associazioni, privati, enti e società pubbliche, ma si propone anche come partner di professionisti legali, commercialisti ed altri esperti che possono così ampliare la gamma dei servizi offerti ai propri clienti. L’azione della start-up si focalizza sui segmenti commercial (violazioni di contratto, prodotti dannosi), corporate (antitrust, proprietà intellettuale/brevetti/marchi, riserve nei lavori pubblici, anatocismo e diritto finanziario, azioni revocatorie), fallimentare e class action. Inoltre opera anche come società benefit, avendo già adottato un Codice etico e di autoregolamentazione, in linea con le migliori prassi internazionali, puntando ad allargare l’uso del litigation funding anche all’ambito non profit.