Economia

LAVORO. Ocse, allarme occupazione: «In Italia il peggio deve venire»

Daniele Zappalà mercoledì 16 settembre 2009
La crisi internazionale del lavoro non offre segni di tregua e in Italia lo scivolone rischia di durare almeno fino alla fine del 2010, così come negli altri Paesi più industrializzati. A tratteggiare questo scenario d’autunno è l’Ocse, il "club" di cooperazione delle economie più avanzate, presentando la propria analisi annuale sul mondo del lavoro. Nel nostro Paese, secondo l’organizzazione, il tasso di disoccupazione continuerà a crescere nei prossimi mesi e potrebbe persino forare il tetto simbolico del 10% alla fine dell’anno prossimo. Cifre che il governo invitava già ieri ad accogliere con prudenza, dato che si tratterebbe «dell’ipotesi peggiore tra quelle possibili, ma non della più probabile», secondo il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. Dichiarazioni doppiate da quelle di Claudio Scajola (Sviluppo economico), che ha evocato la disponibilità in Italia delle «risorse necessarie a garantire il reddito a chi dovesse perderlo». Ma sul fronte sindacale, il rapporto Ocse suscita «preoccupazione», come ha ammesso Giorgio Santini, segretario confederale della Cisl, sottolineando la necessità di «agire con lungimiranza ed urgenza».Per l’Ocse, l’Italia rientra assieme a Germania e Francia nella cerchia di Paesi che sono riusciti finora a contenere meglio l’emorragia d’impieghi perduti. Ben più drammatica, ad esempio, è stata la situazione vissuta negli Stati Uniti, in Giappone, ma anche in Spagna ed Irlanda, dove l’impatto della recessione è stato particolarmente brutale. Ma nei Paesi come il nostro, i tempi supplementari della crisi potrebbero far cedere gli argini. Proprio per questo, dietro l’angolo dovrebbe ancora esserci «gran parte della crescita della disoccupazione», con un quadro che rischia di divenire particolarmente fosco per i giovani. «Si può immaginare che una crisi di lunga durata si protragga per i giovani anche dopo la ripresa», ha evidenziato in proposito Stefano Scarpetta, capo della divisione Ocse che analizza l’impiego. La disoccupazione giovanile in Italia, evidenziano i dati appena pubblicati, potrebbe così rimanere superiore di quasi 10 punti alla media dei Paesi ricchi. Con problemi endemici come il prolungarsi della transizione fra formazione e ingresso nel mondo del lavoro. Chi si sforza di «mettere in prospettiva» lo scenario dell’Ocse, ricorda che i dati su cui si basa l’organizzazione risalgono al primo semestre 2009 e che da allora sono apparsi a livello internazionale timidi segnali incoraggianti. Si ricorda fra l’altro che le previsioni economiche dell’organismo basato a Parigi hanno subito in passato frequenti correzioni in positivo.Ma al di là di ogni prudenza del caso, la congiuntura internazionale del lavoro appare come la peggiore del Dopoguerra. In 3 anni, fra la fine del 2007 e la fine del 2010, l’Ocse prevede una progressione del numero di disoccupati superiore ai 25 milioni nei Paesi più sviluppati. Se fosse davvero così, il balzo indietro diverrebbe paragonabile a quello del decennio dei due grandi choc petroliferi. Lo scorso giugno, sempre nell’area Ocse – 23 Paesi europei, Nordamerica, Oceania, Turchia, Giappone e Corea del Sud –, la disoccupazione aveva toccato la quota dell’8,3%. Un dato che occorre confrontare con quello del 2007: appena il 5,6%. Nel "bollettino di guerra" annunciato per la fine del 2010, l’Italia (10,5%) conserva una situazione meno grave rispetto a Francia (11,3%), Germania (11,8%) e Spagna (19,8%). Gli Stati Uniti dovrebbero toccare anch’essi un livello "storico" del 10,1%.Il rischio maggiore, sottolinea l’Ocse, è «di vedere gran parte di questo forte aumento della disoccupazione prendere un carattere strutturale». Per questo l’organismo, pur lodando soluzioni d’emergenza come il ricorso alla riduzione del monte orario nelle fabbriche, raccomanda ai governi di preparare già adesso al meglio le condizioni per il riassorbimento futuro della disoccupazione. Al contempo, i governi non dovrebbero cedere alla tentazione dei pensionamenti anticipati, anche perché nel medio termine questa misura rischierebbe di contribuire al restringimento della base produttiva, con una perdita netta di competenze professionali e difficoltà crescenti nella loro trasmissione.