Economia

Malattie professionali. L'amianto, una piaga sociale

Maurizio Carucci giovedì 31 gennaio 2019

Di amianto si continua a morire. I casi tendono ad assestarsi attorno ai 1.500 l’anno e l’edilizia si conferma il settore dal quale ne proviene il maggior numero. Sono i dati riferiti dal VI Rapporto del Registro nazionale dei mesoteliomi – Renam dell’Inail, che segnala i casi di mesotelioma maligno, tumore causato dall’esposizione all’amianto, con una diagnosi compresa nel periodo 1993-2015. Nel Rapporto sono riportate informazioni relative a 27.356 casi di mesotelioma maligno. Oltre il 90% risulta a carico della pleura, sono presenti inoltre 1.769 casi peritoneali (6,5%), 58 e 79 casi rispettivamente a carico del pericardio e della tunica vaginale del testicolo. Fino a 45 anni la malattia è rarissima (solo il 2% del totale dei casi registrati). L’età media alla diagnosi è di 70 anni senza differenze apprezzabili per genere. Il 72% dei casi archiviati è di sesso maschile. La percentuale di donne passa dal 27,4% per i mesoteliomi pleurici a 32,8% e 41,1% rispettivamente per i casi del pericardio e del peritoneo.


La grande attenzione al tema delle malattie amianto-correlate nel nostro Paese, a oltre 25 anni dal bando di ogni forma di estrazione, lavorazione, importazione e commercio di amianto, deriva in primo luogo dall’essere in corso attualmente (e ancora per qualche anno nelle previsioni epidemiologiche) la massima incidenza di mesoteliomi in conseguenza dell’intenso uso del materiale dal secondo dopoguerra fino agli anni ’80 e della lunga latenza della malattia. L’Italia è attualmente uno dei Paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia di malattie amiantocorrelate. Tale condizione è la conseguenza di utilizzi dell’amianto che sono quantificabili a partire dal dato di 3.748.550 tonnellate di amianto grezzo prodotto nazionalmente nel periodo dal 1945 al 1992 e 1.900.885 tonnellate di amianto grezzo importato nella stessa finestra temporale.

Purtroppo si stima che il picco di mesoteliomi si toccherà tra il 2020 e il 2030. Una malattia subdola, che deve fare i conti con l'assenza apparente di sintomi. Tanti i lavoratori esposti all'amianto. Non solo nell'edilizia. Basti pensare ai cantieri navali o alle costruzioni ferroviarie. Preoccupa anche la presenza di questo materiale killer negli edifici pubblici, in particolare nelle scuole. Inoltre preoccupano i ritardi nella bonifica.

Intanto si accumulano nelle aule dei tribunali le cause di risarcimento a favore degli eredi di lavoratori morti per l'esposizione all'amianto. Proprio ieri il ministero della Difesa è stato condannato a risarcire 670mila euro alla moglie e ai due figli di un dipendente dell'arsenale della Marina militare di La Spezia deceduto a 62 anni per mesotelioma. Lo ha deciso il giudice Alberto Alberto la Mantia, della seconda sezione civile del tribunale di Genova, accogliendo l'istanza degli avvocati Pietro Frisani ed Emanuela Rosanò.«La chiusura delle decine di processi penali da eternit partendo per esempio da “Marina militare Padova” passando per l'Ilva di Taranto, che si sono conclusi con l’assoluzione degli imputati per intervenuta prescrizione - spiega l'avvocato Pietro Frisani - hanno definitivamente confermato come dal punto di vista sostanziale la strada del processo penale per gli esposti ad amianto e, purtroppo troppo spesso agli eredi di questi, è il più delle volte improduttiva di effetti. Ciò perché la responsabilità penale è personale e quindi ci si trova a giudicare soggetti di età molto avanzata che spesso non sopravvivono al processo, e altresì perché i termini della prescrizione penale decorrono dalla consumazione del reato che nei casi di amianto “non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione dell’amianto prodotti dagli stabilimenti della cui gestione è attribuita la responsabilità all’imputato” ( stralcio sentenza eternit). Quindi parliamo di condotte che nella migliore delle ipotesi sono cessate alla data di promulgazione della legge sull’ amianto e quindi massimo al 1992».


Nonostante gli sforzi compiuti da alcuni tribunali e Corti di Appello nel cercare di allungare il più possibile i termini di prescrizione, anzi più precisamente la data della decorrenza della stessa, la triste realtà è che ormai tutti i processi penali relativi a reati conseguenti a condotte colpose per esposizione dei lavoratori a fibre di amianto si concludono con un nulla di fatto falcidiati dalla mannaia della prescrizione.

«La strada del processo civile, invece, offre maggiori garanzie: sia in termini di esito positivo del processo nel senso di ottenere una condanna dell’azienda al risarcimento del danno, sia in termini di decorrenza della prescrizione la cui disciplina è profondamente diversa rispetto a quella penale - precisa il legale -. La prescrizione del risarcimento del danno in campo civile, infatti, a differenza del campo penale comincia a decorrere non dal giorno in cui il terzo tiene il comportamento che determina poi a distanza di anni il danno, e neanche dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da quello in cui la malattia può essere percepita, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche, come un danno conseguenza del comportamento del terzo. Non è, pertanto, sufficiente la mera consapevolezza da parte della vittima di stare male, bensì occorre che quest’ultima da un lato sia consapevole di aver sviluppato una malattia irreversibile o comunque duratura, dall’altro lato, sia altresì consapevole di cosa ha determinato la sua malattia, e quindi del fatto che a monte della stessa vi sia stato un fatto illecito ( in tal senso le Sezioni Unite della Cassazione sentenza n. 576/2008). E’ di tutta evidenza quindi come, trattandosi di danni lungolatenti, nel campo civile la prescrizione decorra a distanza di 30 o anche 40 anni dal fatto illecito e cioè dal momento in cui insorge la malattia e si ha piena consapevolezza che la stessa è da ricondursi alla attività illecita del proprio datore di lavoro. Orbene nel campo civile la prescrizione del danno è di natura contrattuale e quindi di durata decennale ed in particolare trattandosi di danni da rapporto di lavoro la normativa specifica ha previsto, in caso di decesso, un aumento di detto termine a 14 anni».

Purtroppo nel caso di diagnosi di mesotelioma pleurico le speranze di vita sono molto ridotte, per cui si può considerare che il termine di prescrizione dell’azione di risarcimento del danno sia individuabile il più delle volte in una data che oscilla tra i dieci e i 12 anni dalla data del decesso. Tuttavia per interrompere i termini di prescrizione nel campo civile basta una semplice raccomandata, cosa impossibile nel procedimento penale. L’azione civile può essere esercitata dal lavoratore esposto e proseguita, in caso di decesso, dai suoi eredi che avranno diritto sia al risarcimento a titolo ereditario di quanto avrebbe avuto il loro congiunto se fosse stato in vita, sia a un risarcimento per loro stessi per aver perduto il proprio congiunto a causa dell’attività illecita del datore di lavoro.

«Certamente anche l’azione civile ha le sue insidie - conclude Frisani - e non può ovviamente ritenersi una causa vinta in partenza, ma sicuramente non si espone alla mannaia della prescrizione come per il penale in quanto per tutta la durata del processo civile la prescrizione rimane interrotta, quindi non vi è alcuna possibilità che il decorso del tempo possa comportare conseguenze nefaste nel corso del giudizio. A ciò si aggiunga che non si corre neanche il rischio di decesso del responsabile per “sopravvenuti limiti di età” in quanto l’azione non è contro una persona fisica bensì contro l’ente che il più delle volte è un ente pubblico, che non può fallire e che è lo stesso da oltre 50 anni: Ferrovie dello Stato, ministero della Difesa, ministero dell'Interno eccetera».