Economia

L'intervento. Edilizia abitativa e sociale, il piano Colao e il modello Milano

Alessandro Maggioni* venerdì 19 giugno 2020

“Edilizia abitativa ed Edilizia sociale” sono due, tra i tanti, argomenti trattati dalla Commissione guidata da Vittorio Colao. Nel citato documento si fa un po’ di confusione nei termini, mescolando l’edilizia abitativa per fasce deboli con l’edilizia scolastica e sanitaria. Un conto è parlare di edilizia economica e popolare (termine da riscoprire e riattualizzare senza timidezze) - a cui si affianca l’edilizia sociale (o social housing che dir si voglia) nelle sue differenti forme - e un altro conto è parlare di edilizia scolastica e sanitaria. In entrambi i casi è necessario un ruolo importante dello Stato, almeno come regolatore e finanziatore.

Nella scheda elaborata dalla Commissione Colao si fa esplicito riferimento a quanto previsto dal nuovo PGT approvato dal Comune di Milano, ossia l’adozione di “quote minime obbligatorie di edilizia nei grandi piani privati e pubblici di trasformazione urbana delle città metropolitane”. Tale citazione è certamente motivo di soddisfazione per l’Amministrazione comunale milanese ma anche per le realtà datoriali milanesi che hanno discusso attorno a tali scelte cercando di renderle attuabili nella realtà. E’ necessario provare a capire se quanto previsto può rispondere agli obiettivi che si propone o se, al contrario, occorrano approfondimenti e ragionamenti a scala più ampia. Cosa è previsto? In sintesi, per ogni piano di sviluppo con una superficie superiore a 10.000 mq edificabili scatta l’obbligo di destinare il 40% di superficie edificabile alla categoria del cosiddetto “ERS” (Edilizia Residenziale Sociale), con il restante 60% stabilito a edilizia libera (a prezzi, dunque, di mercato). Di questo 40% la metà è destinata alla vendita in proprietà convenzionata e la restante parte è destinata a edilizia convenzionata in affitto, da non confondersi con l’edilizia economica e popolare. Questa norma funziona a Milano? È troppo presto per poterlo dire. Sulla carta verrebbe da rispondere: dipende. Innanzitutto dipende se chi sviluppa un’area può contare sulla possibilità di disporre contestualmente dell’edilizia libera in vendita e di quella convenzionata in vendita; l’altra variabile, già citata, è quella del “mercato”: se il mercato immobiliare è effervescente è più semplice ricavare le risorse per finanziare l’affitto. Se il mercato è spento tutto si impantana. Si può immaginare, dunque, come una replica di tale modello a larga scala, se non adeguatamente ponderata e calibrata, rischi di produrre il vuoto in termini di risposta al bisogno vivo di case meno costose. Il mercato languiva già da prima del Coronavirus pressoché dappertutto (tranne poche aree metropolitane).

Cosa si potrebbe fare? Innanzitutto è necessario inquadrare il tema del “diritto alla casa” nel più ampio tema del “diritto alla città”. Se non si metterà mano a un’ organica riforma urbanistica capace di rendere omogeneo il quadro normativo in tutto il Paese si continueranno a produrre afasiche normative regionali con una legge nazionale del 1942 che necessita di riforme e attualizzazioni. A seguire, soprattutto nelle aree metropolitane, il pubblico dovrebbe essere messo in condizione di acquisire aree strategiche (o mantenere quelle che già possiede), sviluppandone i progetti secondo principi redistributivi e mettendo poi in gioco le aree progettate tra i vari attori locali. E’ quanto avviene a Vienna. Per questo è necessario che il patrimonio pubblico di edilizia popolare resti pubblico; non si può pensare di trarre profitti finanziari dagli affitti sociali e – nel caso di risorse pubbliche – le regole le deve dettare, per l’appunto, il pubblico. Anche se a realizzare alloggi fosse il privato. Fantasia? No. Alcune piccole esperienze in tal senso esistono. Basterebbe studiarle, replicarle e mettersi in moto.

*Presidente Consorzio Cooperative Lavoratori e Confcooperative Habitat