Economia

La storia. Il caffè della speranza. Coltivazioni che tutelano lavoratori e ambiente

Maria Gaglione sabato 30 novembre 2019

Una tazzina di caffè (foto di archivio, Ansa)

«Pensare e condividere strategie per promuovere alternative economiche di cui il nostro mondo ha un disperato bisogno». Ha le idee molto chiare Alberto, quando gli chiediamo perché sarà ad Assisi nel marzo 2020. «Abbiamo bisogno di innescare un processo che avvicini i giovani di tutto il mondo per coltivare la speranza di costruire una società più inclusiva, giusta e sostenibile». Alberto Irezabal Vilaclara è il CEO di Yomol A’tel, una cooperativa di imprese sociali che, in una delle regioni più povere del Messico, sono impegnate nella coltivazione e produzione di caffè e miele biologici, cosmetica, progetti di microfinanza. «Il nostro è un modello di business che mette al centro la diversità culturale e fa del capitale relazionale il suo principale punto di forza. Con un’attenzione speciale ai più vulnerabili e alla custodia della nostra casa comune». Resilienza è una parola importante per Alberto. L’ha imparata lavorando per oltre 12 anni a fianco delle comunità indigene tseltal-Maya nella giungla settentrionale del Chiapas. Popolazioni resilienti, comunità che amano la natura e considerano la terra non come un bene da possedere, ma un dono di Dio e degli antenati.

«Ho condiviso con loro la lotta per creare un sistema di produzione del caffè, alternativo agli approcci che escludono le piccole famiglie produttrici e, insieme alla missione gesuita di Bachajón, siamo riusciti a sviluppare tutta la value chain del caffè biologico. La costruzione di un prezzo giusto per i produttori di caffè e miele, consente alle famiglie di avere un reddito costante riconoscendo la dignità al lavoro dei coltivatori e produttori locali. Le coltivazioni di caffè biologico – ci ricorda l’ingegnere industriale con un Mba in Economia Sociale – evitano l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici».

Uno degli aspetti più rilevanti del caffè biologico è infatti la sostenibilità della sua coltivazione. Nelle piantagioni bio, la pianta di caffè cresce all’ombra degli alberi, garantendo la qualità del suolo e la salvaguardia della foresta pluviale.

«Se i piccoli produttori indigeni hanno un reddito equo, continueranno a coltivare le loro terre senza essere costretti a cederle ad altri usi che richiedono la deforestazione, come avviene molto spesso». Alberto insegna anche all’Università Iberoamericana (Ibero) di Città del Messico e dal 2015 sta facendo un dottorato di ricerca in Advanced Management of Organizations and Social Business.

Se, per Alberto, resilienza è una parola chiave, il secondo elemento imprescindibile è fare rete. «Il raggiungimento dei nostri obiettivi (sostenibilità e inclusione) ha richiesto il coinvolgimento di altri stakeholders. Università, fondazioni, altre aziende. Siamo membri di Comparte, una rete di oltre 16 centri gesuiti in America Latina. Dobbiamo essere, citando Sant’Ignazio, un fuoco che accende altri fuochi».

Prima di salutarci, Alberto ci regala un ultimo dettaglio. «Nelle nostre imprese il processo decisionale si svolge secondo due principi fondamentali: il primo è rappresentato dalla cultura indigena tseltal, l’altro è un processo decisionale partecipativo».

Alberto crede che una delle chiavi di sviluppo di modelli di business inclusivi, di cui il nostro mondo ha bisogno, sia custodita nella visione del mondo dei popoli indigeni. «Perché emergano questi nuovi modelli – conclude – dobbiamo promuovere lo scambio culturale di conoscenze e di pratiche, a livello globale e locale. Non farlo, lascerà l’equilibrio a favore degli imperanti modelli di business che portano all’esclusione e al dolore delle persone più fragili della terra».