Economia

IL CASO. Gli altri big delocalizzano più del Lingotto

Alberto Caprotti mercoledì 19 settembre 2012
​C'è una scritta che accomuna l’impianto della Fiat di Kragujevac, in Serbia, con lo stabilimento Vico di Pomigliano d’Arco: «Noi siamo quello che facciamo». Uno slogan sulla facciata che porta lontano, come lontano ha portato la produzione della 500L, l’ultimo modello del marchio torinese in vendita nelle concessionarie italiane a partire dal “porte aperte” del prossimo week end. La fabbrica di Kragujevac sfornerà 600 vetture al giorno a pieno regime, per un totale di 30mila esemplari entro dicembre della nuova multispazio che rappresenta una scommessa fondamentale per Fiat al centro della drammatica crisi di vendite attuale. La Casa torinese nel 2009 ha creato Fiat Automobili Serbia in joint-venture con lo stato serbo, che ne detiene il 33%, impegnandosi, dal canto suo, ad aggiornare la fabbrica di Kragujevac con un investimento complessivo di circa 700 milioni di euro. Secondo gli accordi, Fiat Automobili Serbia quest’anno occuperà 2.443 operai e, per ogni nuovo posto di lavoro, il governo serbo sovvenzionerà da 4.000 a 10.000 euro a seconda del livello di istruzione del dipendente. La delocalizzazione fuori dall’Italia della produzione della 500L ha attirato critiche e perplessità sulle strategie dell’azienda di Marchionne, ma in uno scenario globale, la scelta di Fiat è assolutamente in linea con quanto stanno facendo tutti i principali marchi stranieri. In testa a tutti c’è General Motors, che produce automobili in 24 differenti Stati (considerando gli Usa, in questa classifica, una nazione unica), seguita da Ford con 22 e da Toyota con 21. A seguire Renault-Nissan, che ha fabbriche in 20 Paesi e precede Volkswagen che si ferma a 19, Solo quinta Fiat, che con Chrysler costruisce le sue vetture in 14 Stati differenti, davanti a Honda con 13, Peugeot-Citroen (12), Hyunai-Kia (10), Mitsubishi (9), Suzuki (8), per chiudere con Bmw e Mercedes che fabbricano in 6 Paesi diversi.La globalizzazione domina la scena e non occorre un master in economia aziendale per capire che non si può essere competitivi ad alti vertici se non si delocalizza la produzione dove più conviene perché ci sono aiuti esterni, o dove la manodopera costa di meno, oppure ancora dove si debbono servire mercati specifici con prodotti costruiti “su misura”. La strategia di Fiat ha portato l’Italia al 16° posto nel mondo per auto prodotte, più o meno il livello della Turchia, mentre l’Iran oggi fabbrica addirittura il 50% di vetture in più di noi.A fronte di una produzione mondiale tutt’altro che depressa (+6,7% il saldo complessivo dei primi sei mesi dell’anno), c’è infatti la realtà del mercato europeo in piena crisi di vendite e con una sovrapproduzione esagerata, che riempie i piazzali di auto invendute. Non c’è da stupirsi così se nazioni storicamente “patria” dell’automobile come la Svezia, in seguito alla crisi dei suoi marchi nazionali, oggi costruisca meno auto che Pakistan o Vietnam. Particolarmente significativo il caso di Renault, che si appresta a lanciare sul mercato la nuova Clio, uno dei suoi modelli più popolari. Il marchio francese ha deciso di produrre in casa, nell’impianto di Flins, solo il 40% delle vetture. Il restante 60% verrà costruito nello stabilimento turco di Bursa. Il numero uno di Nissan-Renault, Carlos Ghosn, aveva preso in origine impegni diversi con il governo allora guidato dal presidente Sarkozy, ma qualche mese fa il management del Gruppo – di cui l’Eliseo è addirittura azionista al 15% – ha fatto sapere che ogni Clio prodotta interamente Francia sarebbe costata addirittura 1.300 euro in più di quella costruita in Turchia. Analoghe motivazioni hanno portato alla scelta francese di puntare sul Marocco. Nello stabilimento costruito a Tangeri (36.000 tra dipendenti e personale dell’indotto), Renault ha investito un miliardo di euro. L’impianto oggi è in grado di produrre 400.000 vetture all’anno e si occupa dei veicoli del consociato marchio low-cost Dacia. Intuitive le ragioni della scelta: lo stipendio mensile di un lavoratore marocchino si aggira sui 250 euro, contro i quasi 2000 euro di un collega francese. Come se non bastasse, il sovrano marocchino ha fatto a Ghosn un’offerta irrifiutabile: detassazione completa sulle attività della fabbrica per i prossimi cinque anni e infrastrutture nuove di zecca per raggiungerla, tra cui un’autostrada e una linea ferroviaria ad alta velocità.