Economia

è lavoro. Giovani, la strategia per l'occupazione

Francesca Fazio e Michele Tiraboschi mercoledì 10 novembre 2010
È da oltre un decennio che l’occupazione giovanile rappresenta una priorità nell’agenda di tutti i governi nazionali. Sino a ieri erano il precariato e il lavoro atipico i grandi nemici da combattere. Oggi, in sede di bilancio di una crisi economica senza precedenti, ci si accorge invece della utilità di ogni forma di lavoro, purché regolare. Perché la recessione ha colpito prevalentemente i giovani che ingrossano le file dei disoccupati e che, non di rado, si rinchiudono in sé stessi scoraggiati a qualsivoglia tentativo di ingresso in un mondo del lavoro che non pare in grado di accoglierli.Sono pochi i Paesi che non conoscono una emergenza occupazionale per le generazioni più giovani. Tra questi si segnalano Germania e Austria che hanno sviluppato un efficiente sistema di apprendistato lontano – e assai più nobile – parente di quello che conosciamo noi italiani. Nei Paesi di area tedesca i giovanissimi vengono reclutati in apprendistato dalle aziende che, in sinergia con il sistema scolastico, si propongono come vere e proprie sedi formative abilitate a insegnare quei mestieri, quelle professioni e quelle competenze che sono più ricercate sul mercato del lavoro. Non può pertanto sorprendere se, in questi Paesi, la disoccupazione dei giovani è sostanzialmente in linea con quella dei lavoratori adulti.Vero è infatti che uno dei principali problemi che impattano sulla occupazione dei giovani è il marcato disallineamento tra le competenze e i titoli di studio posseduti e le reali esigenze del mondo del lavoro. Questo spiega perché molti Paesi, tra cui l’Italia, si stiano orientando verso un forte rilancio dell’apprendistato da intendersi come percorso dinamico di avvicinamento tra la domanda e l’offerta d lavoro. È l’esperienza comparata a segnalarci, del resto, come robusti percorsi di formazione in ambiente di lavoro possano facilitare, là dove accompagnati da qualità, controllo e trasparenza, la transizione dalla scuola al lavoro, facilitando l’occupabilità dei giovani. Celebre, ancorché recentemente appannato, il modello giapponese di impiego a vita incentrato su rigorose selezioni dei giovani già durante il percorso educativo per il tramite di efficienti servizi di placement presenti nelle scuole e nelle Università.La conferma ci arriva dallo «Youth Employment Inventory», un’iniziativa promossa dalla Banca Mondiale che ha classificato più di 300 interventi per 90 Paesi nel mondo. Ebbene, circa il 40% degli interventi promossi dai governi nazionali (111 su 289 politiche) ha riguardato l’attuazione di forme di apprendistato, orientamento e formazione professionale. Non di rado attraverso il collegamento tra politiche passive di sostegno del reddito con politiche attive. Si possono ricordare, a titolo di esempio, alcuni programmi di ricollocamento come gli inglesi «Restart Programme» e «New Deal for Young People Programme», che hanno condizionato la concessione di sussidi di disoccupazione alla partecipazione a corsi di orientamento e formazione per la ricerca di un impiego.In tempi di crisi, l’immobilismo delle opportunità e la bassa fiducia rendono incerti i datori di lavoro che, alle prese con complessi processi di ristrutturazione ed esuberi del personale, sono particolarmente restii ad avallare nuovi ingressi di forza lavoro inesperta e spesso ancora tutta da formare. Questo spiega perché alcuni Paesi abbiano seguito la via della incentivazione finanziaria con l’obiettivo di ridurre il costo del lavoro giovanile per le aziende. Non di rado è stata sperimentata anche la via dei lavori socialmente utili o di pubblica utilità, come nel caso di Spagna e Stati Uniti, con risultati tuttavia alquanto deludenti in termini di occupazione aggiuntiva. Alcuni programmi di workfare statunitensi, come gli «Youth Corps» e gli «Americorps», hanno invece dato prova di un influsso benefico sulle prospettive occupazionali e di reddito dei giovani con benefici che, il più delle volte, hanno superato nettamente i costi del programma.In alcuni Paesi sono stati sperimentati anche programmi cosiddetti di "azione positiva" volti ad offrire alle imprese incentivi per contrastare la discriminazione verso i giovani da parte dei datori di lavoro, fissando quote da destinare al target discriminato per bilanciare le opportunità lavorative del mercato. L’evidenza di questi programmi è mista: il «First Job Agreement Programme» del Belgio, che prevede una quota del 3% di giovani fino ai 26 anni per le aziende che hanno almeno 50 dipendenti, non ha infatti mostrato un impatto significativamente positivo sulla occupazione complessiva giovanile. In Nuova Zelanda, nel contesto di un programma di partenariato industriale e in un mercato del lavoro assai differente, questi programmi hanno invece condotto a un aumento significativo del numero di posti di lavoro riservati ai giovani.Il confronto con l’esperienza di altri Paesi mostra che non esistono, allo stato, ricette miracolose e che in tutti i Paesi le difficoltà di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro possono essere affrontate con un mix di azioni che individuano nei percorsi formativi di qualità uno dei punti di maggiore efficacia. A condizione, tuttavia, di aumentare la trasparenza del mercato del lavoro con più moderni ed efficienti servizi e con una maggiore circolazione delle occasioni di lavoro, che oggi può essere efficacemente conseguita mediante un sapiente utilizzo della rete. Su questo fronte, quello della trasparenza delle informazioni sul mercato del lavoro, molti Paesi sono oggi all’avanguardia mentre noi, solo ora, con il rilancio della Borsa lavoro (attraverso il sito Cliclavoro www.cliclavoro.gov.it), stiamo compiendo i primi passi in questa direzione.