Economia

Clima. Gli impegni presi a Parigi non bastano a frenare il riscaldamento globale

Pietro Saccò mercoledì 1 novembre 2017

Gli scarichi di produzione di una cartiera in Ontario (https://flic.kr/p/62LB1J)

Se davvero i governi del mondo vogliono collaborare per evitare che la crescita della concentrazione di gas serra in atmosfera porti a un aumento delle temperature di 2 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale, allora devono fare qualcosa di più di quanto promesso alla conferenza di Parigi nel 2015. Dopo che l’Organizzazione meteorologica mondiale ha segnalato il livello inedito di concentrazione di anidride carbonica in atmosfera nel 2016, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) ha aggiornato le sue stime sul cosiddetto “gap” di emissioni, cioè la distanza tra la riduzione di gas serra necessaria a centrare gli obiettivi stabiliti a Parigi e i tagli effettivamente promessi dagli Stati.

Ne emerge che gli impegni attualmente presi volontariamente dai governi (e non necessariamente già concretizzati) potranno generare circa un terzo del taglio delle emissioni necessario a centrare l’obiettivo dei 2 gradi. Se questa distanza non sarà colmata prima del 2030, avverte l’Unep, «è estremamente improbabile che l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi possa ancora essere raggiunto». Più nel dettaglio, con i soli impegni presi a Parigi, nel 2030 le emissioni sarebbero superiori di una quantità compresa tra gli 11 e i 13,5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente rispetto ai livelli neccessari per centrare gli obiettivi. Un miliardo di tonnellate è la quantità di emissioni prodotte in un anno dall’intero settore dei trasporti all’interno dell’Unione europea.

Dopo avere descritto questo quadro fosco, l’Unep propone anche la soluzione “facile”: grazie alle nuove tecnologie già adottate nei paesi più innovativi è possibile ridurre le emissioni di 30-40 miliardi di tonnellate all’anno con una spesa contenuta in meno di cento dollari per tonnellata, cioè per un conto globale di massimi 4mila miliardi di dollari. Una cifra alta ma non irraggiungibile: è circa il 5% del Prodotto interno lordo globale.

In particolare ci sono sei ambiti di intervento in cui il programma dell’Onu vede il potenziale per ridurre le emissioni di 22 miliardi di tonnellate l’anno. Sono l’energia solare e quella eolica; gli elettrodomestici ad alta efficienza; le auto con motorizzazioni efficienti; l’afforestamento, cioè la trasformazione in zone forestali di terreni che storicamente non contenevano foreste; e l’interruzione della deforestazione. Poi per centrare gli obiettivi è «cruciale» evitare di avviare nuove centrali a carbone e portare verso lo spegnimento quelle esistenti. Un altro contributo può venire dalle tecnologie che permettono un maggior assorbimento dell’anidride carbonica, come l’aggiunta di agenti alcalini agli oceani o la cattura della CO2 nell’aria con successivo immagazzinamento nel sottosuolo.

Ovviamente è necessaria la determinazione dei governi, a partire da quelli di Cina e Stati Uniti, economie che assieme sono responsabili di circa il 35% della CO2 emessa ogni anno nel pianeta. In questo senso è ovviamente allarmante l’uscita dagli accordi di Parigi promessa da Donald Trump, ma è preoccupante anche il fatto che tra i paesi del G20 solo 7 (cioè Cina, India, Giappone e gli europei Germania, Francia, Italia e Regno Unito) siano in linea con il percorso che li porterà a centrare gli obiettivi di taglio delle emissioni promessi per il 2020. Altri tre – Australia, Brasile e Russia – potrebbero riuscirci. Gli altri dieci sono in ritardo, e tra questi ci sono tre nazioni – Argentina, Arabia Saudita e Turchia – che non hanno preso alcun impegno. Se a Bonn, dove i capi di Stato di troveranno la settimana prossima per il 23esimo vertice Onu sul cambiamento climatico, si trovasse un’intesa per intensificare gli sforzi rendendoli effettivamente capaci di centrare gli obiettivi, sarebbe già un deciso passo in avanti.