Economia

Bruxelles. L’etichetta "made in" non attacca

Giovanni Maria Del Re venerdì 29 maggio 2015
Niente da fare: sull’estenuante battaglia sul "made in", ieri a Bruxelles si è dovuta registrare l’ennesima fumata nera. I fronti contrapposti non si sono smossi. E così rimane al palo l’intera proposta di direttiva per la sicurezza dei prodotti - di cui la questione del "made in" è "solo" un articolo (il numero 7).Dal 2010 va avanti la discussione, con l’Italia in prima fila a chiedere l’etichettatura obbligatoria su dove sia stato fabbricato il prodotto (si parla di quelli non alimentari, quelli alimentari sono già soggetti ad altra normativa). L’Italia, ha ricordato ieri il vice ministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda, come sforzo di compromesso chiede almeno l’inclusione dei settori ceramica, calzature, gioielleria, tessile e legno-arredo. Un gruppo di Paesi del Nord, però continua a non sentirci: Belgio, Danimarca, Gran Bretagna, Irlanda, Olanda e Svezia, che detengono grandi catene commerciali non interessate a pubblicizzare l’origine dei prodotti, e la Germania che assembla fuori dal Paese molti prodotti e non vuole rinunciare a presentarli come "made in Germany". Con l’Italia sono Croazia, Francia, Grecia, Portogallo e Spagna, anche la Polonia si è ora avvicinata. La presidenza di turno lettone ha presentato una bozza di compromesso in cui "sopravviverebbero" solo due categorie: calzature e ceramiche. Per il commissario europeo al Mercato interno Elzbieta Bienkowska, la proposta è «piuttosto accettabile», ma è davvero troppo poco per l’Italia. «Non c’è una maggioranza a favore del "made in" e neanche una maggioranza tale da far passare il pacchetto senza - ha commentato Calenda - siamo in una fase di stallo». Si tratterà di «continuare a negoziare; finché non si trova una soluzione che comprenda il made in, il pacchetto non passa». Biankowska ha promesso che l’articolo non sarà stralciato, ma ha invitato «tutti a fare uno sforzo in più per un compromesso». «È surreale - ha detto ancora Calenda - che un’Europa che vuole crescita e occupazione non riesca a decidere su una norma di buon senso. Allora si smetta di raccontare che vogliono la crescita: si tutelano solo gli interessi dei grandi importatori».Da registrare, intanto, l’ammorbidimento del Parlamento europeo sulla spinosa questione dei tribunali per i dissidi tra investitori e stati (Isds), da inserire nel negoziato di libero scambio Ue-Usa (Ttip). Washington li vuole assolutamente e la Commissione Europea è d’accordo. Ieri la commissione Commercio del Parlamento ha approvato un testo che accetta gli Isds, ma con precisi paletti: a decidere dovranno essere «giudici indipendenti e pubblicamente designati», con «audizioni pubbliche» e un «chiaro meccanismo di appello», e il rispetto della giurisdizione della Corte di giustizia Ue e dei tribunali nazionali.