Economia

Prezzi. A sorpresa arriva la "disinflazione"

Pietro Saccò sabato 21 gennaio 2023

Prepariamoci per la disinflazione: una frenata della corsa dei prezzi che probabilmente sarà anche più rapida del previsto. «Il ritmo dell’inflazione ha sorpreso nel 2022. Il ritmo della disinflazione potrebbe sorprendere nel 2023» scrivono gli analisti della banca svizzera Ubs in uno studio pubblicato mercoledì. Secondo i loro calcoli alla fine del 2023 il tasso di aumento dell’indice dei prezzi al consumo potrebbe essere al 2,2% negli Stati Uniti e al 2,3% in Europa. Livelli molto vicini all’obiettivo del 2% indicato nel mandato delle banche centrali e anche molto lontani dai numeri di dicembre, chiuso con un’inflazione al 9,2% in Europa e al 6,5% negli Stati Uniti.

Il rallentamento è in corso da tempo ormai. In Europa l’indice dei prezzi ha toccato il picco in ottobre (al 10,6%) e quindi ha iniziato la sua discesa. Negli Stati Uniti la svolta era arrivata già in estate: a giugno l’aumento è stato del 9,1%, dopodiché sono arrivati sei mesi consecutivi di calo.

I fattori che frenano l’inflazione sono diversi. La stretta sulle politiche monetarie ultra-espansive dell’ultimo decennio – tra aumenti dei tassi di interesse e ritiro delle misure di acquisto di titoli pubblici e privati – è solo quello più visibile. Sembra altrettanto importante il raffreddamento globale del mercato dell’energia. Rispetto ai picchi della scorsa estate, le quotazioni internazionali del petrolio sono scese di circa il 30%, quelle del gas naturale per l’Europa addirittura dell’80%. Sembrano essersi risolti anche i tanti colli di bottiglia lungo le catene di fornitura globale che erano stati una delle grandi cattive sorprese della ripresa post-pandemia. Il costo dei container per trasportare le merci con le grandi navi è crollato dell’80% rispetto ai prezzi stellari di un anno e mezzo fa.

Anche gli analisti della banca di investimento newyorchese Jeffries stanno consigliando ai clienti come muoversi davanti a una disinflazione americana considerata simile a quella di inizio anni Ottanta, quando il governatore Paul Volcker portò i tassi di interesse fino al 20% e nel giro di un anno riuscì a fare crollare l’inflazione dal 14% al 3,5%.

E qui emerge la faccia sgradevole di questa disinflazione. Perché Volcker non esitò a mandare l’economia americana in recessione pur di sconfiggere l’inflazione. La stretta monetaria può avere un costo molto elevato in termini di contrazione del Pil e di perdita di posti di lavoro. Lo ricordano per esempio le decine di migliaia di licenziamenti annunciati dalle maggiori società tecnologiche del mondo: 12mila tagli a Google, 11mila in Meta, 18mila Amazon, per ricordare solo i gruppi più grandi. Dietro questi tagli c’è la volontà di adattare l’attività a un contesto economico peggiorato ma anche una strategia per contenere il costo del personale davanti ai rialzi degli stipendi necessari per mantenere i dipendenti motivati in tempi di alta inflazione. Se gli stipendi aumentano ma i lavoratori diminuiscono, l’effetto “spirale inflazione-salari” si riduce e questo contribuisce a raffreddare l’indice dei prezzi.

Tra gli avvertimenti di Jeffries agli investitori c’è quello di prepararsi a un brusco ridimensionamento degli utili delle aziende, i cui fatturati e margini sono stati gonfiati dalla corsa dei prezzi. «I costi stanno crescendo più dei ricavi netti» ha avvertito qualche giorno fa anche Mike Wilson, capo degli investimenti di Morgan Stanley, notando che i mercati non sembrano avere ancora compreso gli effetti che la disinflazione avrà sui bilanci aziendali.

L’atteggiamento prevalente degli investitori è piuttosto orientato a uno scenario che in America hanno definito “disinflazione immacolata”. Un rallentamento dei prezzi senza macchia, cioè poco costoso, perché non si porterebbe dietro un aumento della disoccupazione e perdita di valore aggiunto. È lo scenario che sembrano avere anche gli osservatori più autorevoli.

Va in questa direzione la Banca d’Italia, che nel Bollettino economico pubblicato venerdì prevede una crescita del Pil dello 0,6%, un’inflazione al 6,5% e un tasso di disoccupazione stabile all’8,2%. Sarebbe un contesto in linea con quello della recessione «lieve e breve» che emerge dalle analisi della Banca centrale europea e che la presidente Christine Lagarde ha confermato al World Economic Forum di Davos.

Anche negli Stati Uniti è diffuso un ottimismo di questo tipo. James Bullard – presidente della Fed di St. Luis e uno tra i più ascoltati governatori “locali” della Fed – a inizio gennaio ha presentato la sua analisi di inizio 2023. Ha spiegato di aspettarsi un anno di disinflazione in cui il Pil crescerà comunque «più di quanto inizialmente previsto». Eccola, di nuovo, la disinflazione “immacolata”, che dopo un 2022 straordinariamente difficile sembra davvero il migliore scenario di graduale ritorno alla normalità per per i prossimi mesi.